
Dopo una timida presentazione della perfomance, Popp inizia a mandare in circolo le sue creazioni pescando a casaccio da “O” con sapienza e passione, mettendo a disposizione del pubblico tutta l'atmosfera intima e personale apprezzata in sede di ascolto discografico. Nonostante le sue variazioni siano pressoché inesistenti, il piacere di ascoltare pezzi come “Ah!” con un impianto stereofonico professionale è davvero sorprendente. La sua prova è un atto di amore verso la musica, una deliziosa condivisione reciproca, una concessione di un'ora e mezzo capace di far splendere gli altoparlanti fino all'inverosimile. I timbri e le melodie risuonano gentili, creando un flusso intervallato da pause di semplice silenzio fra una traccia e l'altra, un po' come succedeva su disco, con la differenza che l'ordine delle tracce era differente. Il fatto che la modifica della sequenza con cui sono eseguite le tracce non abbia inficiato il risultato finale dimostra come queste composizioni abbiano una magica versatilità, completamente slegata da fattori esterni.
Dopo la prima parte di concerto fatta di musica incantata, con passo religioso e impacciato, Markus Popp si allontana con un saluto minimale, acclamato da un pubblico non numeroso ma molto riconoscente. Il ritorno sul palco è l'occasione per colmare alcune lacune nella scaletta. Per ovvi motivi di tempo non tutte le settanta tracce di “O” troveranno spazio all'interno dello spettacolo, tuttavia la mistica suggestione evocata sarà identica e profondamente autentica.
Leggenda e pioniere di tutta la corrente glitch, mentore di una schiera infinita di musicisti a lui debitori, Oval con semplicità e umilità encomiabili impacchetta uno show essenziale, raccolto, discretamente sviluppato e non frettoloso, dimostrando un'onestà intellettuale e un acume tipico di chi ha lasciato un segno indelebile nel suo ambito musicale di riferimento.