19/04/2012

Beth Jeans Houghton

Spazio 211, Torino


Chissà se a fine anno Beth Jeans Houghton, in arte Du Blonde, sarà archiviata nello schedario delle meteore, in quello delle sorprese, o potrà ambire a qualche riconoscimento più significativo. Chissà, soprattutto, quanti tra un paio di mesi potranno ammettere di averla sentita nominare o di aver ascoltato quantomeno uno dei singoli del suo fenomenale disco d’esordio, Yours Truly, Cellophane Nose”. La più plausibile delle risposte è che il numero sarà comunque esiguo, nonostante l’orrenda etichetta di certa stampa che ha sfruttato una lontanissima somiglianza estetica (unicamente limitata al volto) definendo la ventiduenne di Newcastle la “Lady Gaga del folk”. Difficile che faccia clamore l’aver aperto numerosi concerti degli acclamatissimi (e del tutto trascurabili) Mumford & Sons, o il legame sentimentale paparazzato per un annetto buono con l’ormai pensionabile cantante dei Red Hot Chilli Peppers, Anthony Kiedis (chi non si somiglia si piglia, quindi?), in realtà, a quanto pare, esperienza pure conclusa da tempo.

220x270_i_11Se per la qualità dell’album restiamo convinti che non potremo che ricordarci di lei al momento di stilare le immancabili classifiche di fine anno, il concerto di questa sera allo Spazio 211 ha sgombrato il campo da eventuali dubbi sulle qualità e sulla natura del personaggio. A livello produttivo, si sa, è possibile nascondere una bella sfilza di magagne presentando artisti mediocri sotto una luce mendace ma di sicuro impatto, e il reclutamento di una vecchia volpe come Ben Hillier (che in passato ha lavorato con BlurElbowSuedeDepeche ModeHorrors Patrick Wolf, solo per citare i grossi calibri) poteva fungere senz’altro allo scopo, almeno stando agli incoraggianti risultati formali. Per la prova del nove serviva però l’appello del live e quelli di Spazio per una volta non si sono fatti sfuggire l’opportunità di invitare una nuova sensazione a esibirsi sul loro palco, evento ormai raro vista la concorrenza spietata in fatto di nomi nuovi da parte dell’Astoria. Orecchie attente, quindi, e aspettative tenute sotto controllo per evitare scottature, precauzione non necessaria in realtà. Le nostre difese sono state abbassate presto, diciamo dopo la coppia di pezzi rompighiaccio (“Atlas” e “Dodecahedron”, la crema) e l’abbandono nei confronti della ragazzina inglese si è rivelato incondizionato.

220x270_ii_09Il più grosso timore della vigilia era legato alla sua voce, quel soprano vertiginoso capace di dare punti e credito alle più ardite soluzioni in fase di arrangiamento, dai barocchismi del Canterbury sound agli azzardi fiabeschi che con altre interpreti non avremmo che potuto definire pacchiani, dalle svisate in salsa western alle architetture melodiche più sostanziali. La conferma, tuttavia, è stata piena dal primo momento, un autentico sollievo in forma di cristallo. Il cantato di Beth Jeans Houghton è qualcosa di impressionante. Angelico ma robusto, versatile per intensità e repertorio, toccante quando serve, senza dimenticarsi di graffiare e trascinare. Se dal punto di vista della compattezza nel suono o dell’agilità di scrittura la ventenne di Newcastle pare ancora leggermente indietro rispetto a talenti assoluti (in un terreno simile) e in fondo già arrivati quali My Brightest Diamond e St. Vincent, forse a livello vocale riesce nella non facile impresa di recuperare lo svantaggio. Già solo per questo, il suo concerto meritava di non essere perso. Sul piatto va aggiunto poi il contributo significativo della sua band, gli Hooves of Destiny, perfetti nell’approntarle impeccabili cornici sonore e decisamente affiatati.

220x270_iii_07La nota più lieta della serata, anche la più inattesa se vogliamo, è stata comunque lei. La persona prima ancora che la cantante. Che si trattasse di un peperino non ci voleva una laurea per capirlo già con largo anticipo, ma che la fanciulla fosse così umile, alla mano, divertente e contagiosa, andava sicuramente al di là di ogni più rosea previsione. Una brezza di hype, per quanto sottile, l’ha sospinta assieme alla promozione comunque importante della sue etichetta, la Mute. La visibilità non le è mancata, e così i paragoni fuorvianti e mai leggeri. Eppure quella capacità di restare sobria, disponibile, affabile, è stata una sorpresa vera e gradita. Poi, beh, naturalmente c’è stato il concerto con le sue trovate riuscite (tipo la cover a cappella di uno dei più celebri pezzi di Madonna), le sue canzoni – tutte all’altezza degli originali e qualcuna (“Humble Digs” stravolta in una veste country credibilissima) addirittura migliore – e la sua ironia accattivante. Chi ha ascoltato il disco sa sicuramente che le già citate “Dodecahedron” e “Atlas”, oltre alla sublime “The Barely Skinny Tree”, sono le migliori promesse della giovanissima cantautrice inglese. Aggiungendo alla terna l’incantevole “Nightswimmer” scelta per il congedo, tocca certificare che pure di promesse mantenute si tratta. Per quello che verrà da qui in avanti occorrerà aspettare un po’, anche se, detto tra noi, ci sarebbe da puntare sull’avvenire luminoso di Beth almeno un discreto cumulo di fiches luccicanti. Il pedigree pop di qualità non le manca e presto potrebbero accorgersene in tanti, con buona pace di Anthony Kiedis e di chi non ha altri riferimenti che Lady Gaga nella sua agenda di critico musicale.

Setlist

Atlas
Dodecahedron
Franklin Benedict
Liliputt
Your Holes
The Barely Skinny Tree
Humble Digs
Honeycomb
Shampoo
I will return, I promise
Sweet Tooth Bird

Like a Prayer
Prick aka Sean
Nightswimmer

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