
Si spera che questo preambolo serva ad accettare col beneficio del dubbio il giudizio su questa prima edizione del No Direction Home Festival, organizzato nel bel mezzo della foresta di Sherwood, sull'altra sponda del lago che quasi circonda l'abbazia di Welbeck, dagli stessi creatori dell'End Of The Road. Forse la sensazione di deja vu è data solo dalla necessità di riciclare un po' di attrezzatura: su tutto il palco principale e l'interno del tendone di quello secondario. Oppure dal fatto che gli stand sono sempre gli stessi, ma in numero minore.
Insomma si tratta più di una sensazione, che un giudizio sulla qualità dell'offerta musicale - che in realtà assomiglia molto di più a quella dell'End Of The Road di qualche anno fa di quella dell'originale attuale (compresi gli onnipresenti Low Anthem, ormai dei mantenuti del festival; ma si capisce perché, innocui e calligrafici come sono). Conta, naturalmente, per chi viene da fuori dell'Inghilterra, il fatto che, sui soliti due giorni di viaggio, ci sia un giorno in meno di festival, nonostante l'impegno degli organizzatori nell'"appendere" al venerdì Warren Ell... i Dirty Three, per accontentare l'audience più attempata (anche più del solito, forse) con un po' di virtuosismi ormai svuotati di senso, e i "leggermente" Velvet-iani Veronica Falls (ma anche indie-poppettari gradevoli, dai), per i giovanotti, comunque morigerati.
In realtà, va detto, l'unica concessione alle vecchie glorie è sopratutto quella fatta a Richard Hawley, star autoctona che diversi là probabilmente considerano il vero highlight del festival (infatti il suo è un concerto in un certo senso "nazional-popolare", uno spettacolo di tecnica e stereotipi, che avrà inoltre fatto ingoiare la fede per un'ora e mezza a diverse signore, speriamo in senso figurato), anche più di quello vero, Andrew Bird, che emoziona alla sua maniera: con un tic nervoso della testa a sinistra (no, non l'ha fatta).

Oppure quell'omone gentile di Seamus Fogarty, che, "dato che è un festival", lascia a casa il laptop e le sue sperimentazioni di memoria e "costume" e fa un set sornionamente classicheggiante, quel country-blues un po' alla M. Ward ma senza il personaggio, e mostra gusto anche nella scelta della fidanzata, che lo accompagna (bene) al violino; implicita è la capacità tecnica e artistica di suonare cose diverse ma essere sé stesso. Poi, gli immarcescibili Wave Pictures, tra le poche band in circolazione che "interpretano" le proprie canzoni sul palco, invece di replicare in serie quanto registrato su disco.
Tolta qualche delusione, qualcuna annunciata (Trembling Bells - impresentabile lo stile vocale di lei - e Cold Specks, il cui fascino, come su disco, dura lo spazio di qualche canzone), qualcun'altra meno (una spenta Tiny Ruins, un Woodpigeon annoiato e depresso e con qualche nuovo pezzo davvero preoccupante per capziosità, uno Spectrals povero e approssimativo oltre le necessità di genere, un Father John Misty che si è chiaramente rotto di quel secchione di Pecknold e ha scritto delle canzoni con lo scopo preciso di partecipare alla caccia alla pernice; tra le battute da gallo cedrone si è dimenticato di dire che la camicia gliel'aveva strappata una di loro, casualmente proprio in modo che si vedesse il tatuaggio sotto), capita la sciagura di scorgere da lontano le sagome "lievitate" delle Unthanks, occupate in un criminale tentativo di ammorbare il festival con i loro brani di tradizionalismo da "tè delle 5", accompagnate da un'intera orchestra, tutti vestiti da camerieri (e un perché ci sarà).

Per fortuna il burro viene sciolto e scolato dai bravi - ma un po' si sapeva - Zulu Winter, piacevole digressione balearica e, più tardi, da Mikal Cronin, sporco e casinista sul palco e nella vita, equipaggiato di un bassista con un piede "steccato" il giorno prima con nastro adesivo e asse di legno. Tra le sorprese vanno citati il (leggerino) repertorio solista di Euros Childs, ex-frontman dei Gorky's Zygotic Mynci, e i Moon Duo, progetto alternativo del chitarrista dei Wooden Shjips, anche se dal fascino più che altro estetico, di ombre proiettate, ritmi ossessivi e temi chitarristici appena intendibili.
Questa, più o meno, è stata la prima edizione del No Direction Home. Qualcuno troverebbe il fatto che si tratta della "prima" una scusa al suo carattere più raffazzonato e dimesso, qualcun altro un'aggravante - per gli stessi motivi. Certo è un festival, per chi ha un viaggio lungo e costoso da affrontare, che probabilmente ancora non merita la fiducia incondizionata che serve per comprare il biglietto, pur a prezzo scontato, prima di conoscere la line-up, o parte di essa - a differenza dell'End Of The Road. Fate voi i vostri conti.
Contributi fotografici di Francesca Baiocchi.