Quel che mi aspettavo di vedere, una volta spesa volentieri la cifra di quaranta euro per i biglietti di questo concerto, era tutto fuorché uno show dei Porcupine Tree. A giustificare il perché è sufficiente pensare ai due lavori usciti come prove soliste di Steven Wilson, ovvero l'eclettico e variegato "Insurgentes" e il progressivo (fino al midollo) "Grace For Drowning", che ammetto di non aver mai ascoltato prima dello show: troppo poco il tempo a disposizione, troppo allettante la sfida di scoprirlo per la prima volta in una dimensione live. Altrettanto mi aspettavo di sicuro uno spettacolo tecnicamente stratosferico (visti anche i componenti della band), tecnologicamente sviluppatissimo e musicalmente impeccabile. Quel che davvero non mi aspettavo, dal Wilson "solista", era una performance così agguerrita, sentita, emozionale, dove il cuore era oltre la testa, tanto da donare al suono e all'esecuzione quel tocco d'umanità, comprendente anche qualche piccola imperfezione tecnica, in grado però di trasmettere un'energia incredibile. Una performance magnifica.
Quello della Steven Wilson Band (perché è giusto considerare l'enorme contributo di tutti i membri, ciascuno proveniente da esperienze importantissime) è un concertoprog davvero in tutto. È prog nell'attesa di sei ore per accaparrarsi il posto davanti, conteso nelle prime 4 da una scarsa decina di persone, poi aumentate fino quasi a riempire il (non enorme) Alcatraz. Prog nel rapporto coi fan, persone che si conoscono da anni e si incontrano ai concerti, "novizi" (come il sottoscritto) in fretta reclutati nel gruppo, e via a discussioni musicali, scambi di opinioni, il tutto a rendere l'attesa quasi leggera. E, poi, soprattutto, èprognella musica, quella di "Grace For Drowning" in particolare, che, dopo aver ascoltato, posso garantire sia riuscito a guadagnare nella dimensione live in ogni suo aspetto: in coesione, in brillantezza e in forza d'impatto, innanzitutto, più gli ovvi vantaggi del caso.
Così, dopo l'attesa tra l'ingresso e l'inizio del concerto, "allietata" dal fondale di droni field di alcuni (invero modestissimi) estratti dall'ultimo lavoro del side-project di Wilson Bass Communion, in grado di far saltare i nervi a gran parte dei rockettari presenti al concerto, ecco arrivare uno alla volta, su un modello in passato già fin troppo sperimentato, i membri della band, che attaccano a suonare ognuno il proprio strumento in un'intro che ad orecchio pare essere un mash-up piuttosto jazzato di alcune sezioni di "Deadwing", dall'album omonimo dei Porcupine Tree. E questa sarà, in tutta la serata, l'unica occasione di richiamo al gruppo.
Il primo a comparire è il batterista Marco Minnemann, in grado di farsi notare per una spiccata propensione al drumming metal che caratterizzerà l'intero concerto, arrivando in qualche occasione a essere persino troppo marcato. A seguire, l'ormai guru di basso e chapman stick Nick Beggs, stranamente più sobrio del solito (niente gonne di pelle e stivali sadomaso né trecce vichinghe), il tastierista jazz Adam Holzman, tra gli altri partner musicale del Miles Davis dei tardi 80, il chitarrista Niko Tsonev, recente acquisto della band, lo storico sessionman Theo Travis, tra gli altri collaboratore di King Crimson, Jade Warrior e Gong, e infine Wilson. Già dalla comparsa è evidente la differenza di atteggiamento del nostro rispetto a quello a cui ci ha abituato: si sbraccia, si lancia sul palco, salta, urla, incita il pubblico; della serietà e del rigore del leader dei Porcupine Tree non v'è traccia, della timidezza di quell'omino coperto dalla liscia chioma bruna e dagli occhialini non si nota più nulla, quello che ci appare è un Wilson libero, quasi rockstar, ad alternarsi tra voce, chitarra (benché il ruolo di chitarrista principale venga lasciato in toto all'ottimo Tsonev) e tastiera.
Si parte quindi con un pubblico infiammato, e una band ancor più in forma, inizialmente nascosta da un telo su cui vengono proiettate alcune bellissime visuals, ma prepotentemente presente nell'attacco di "No Twilight Within The Couts Of The Sun", da "Insurgentes", della quale viene praticamente saltata la lunga, acida introduzione, per arrivare subito alla fase centrale e all'esplosione doom. Già da quest'inizio è chiara ed evidente l'impostazione che la band ha voluto dare all'esibizione e al tour tutto, scegliendo di soffermarsi maggiormente sul lato hard delle composizioni, tralasciando forse un po' il climax di saliscendi e stop 'n' go. Ma la formula funziona benissimo, risulta più diretta e maggiormente coinvolgente sia per gli spettatori che per i musicisti, soprattutto negli estratti di "Grace For Drowning". La scoperta del nuovo lavoro parte dalla successiva "Index", il cui oscuro e patinato incedere quasi prog-pop della versione in studio viene smontato e trasformato in un vero e proprio segmento hard-rock, con il particolare contributo del drumming metallico di Minnemann, in grado di donare uno scheletro possente al brano.
La dolce introduzione di piano che apre "Deform To Form A Star" assume le proporzioni di uno skit jazz grazie a Holzman, ma l'epico crescendo melodico, alla cui metà coincide anche il "crollo" del telo, è anche qui contornato da un'impronta molto dura, decisamente estranea all'originale e ancora di impatto stratosferico. I due brani a seguire offrono altri due momenti meravigliosi: prima lo scandito e palpitante hard-prog di "Sectarian", quasi una marcia tonica, accompagnata nei suoi pesanti passi dagli effetti delle luci sceniche; poi la toccante ed elegantissima ballad "Postcard", in grado di mandare il pubblico in visibilio e temporaneo momento di quiete, dove Travis disegna spirali melodiche accompagnate dal piano di Holzman e dal sentito cantare di Wilson.
La band esplode nuovamente nei salti di "Remainder The Black Dog", questa volta con il timone affidato ai lancinanti assoli di Wilson e Tsonev e, di nuovo, al crudo drumming di Minnemann; da notare nell'esecuzione due imprevisti capaci di strappare una risata, con Wilson a cui cade un plettro e Minnemann che rischia di rompere una bacchetta nel tentativo di farla roteare tra le dita.
La catarsi si ripete in "Harmony Korine", primo di tre estratti dalla tracklist di "Insurgentes", ed eseguito da Wilson indossando una maschera antigas (la stessa della copertina dell'album): un brano in totale crescendo, che culmina in un formidabile finale non distante da sentieri metal, con il primo esempio di strapotere della batteria di Minnemann. Questo si fa distruttivo in "Abandoner", dove la forte attesa per il tappeto conclusivo di chitarre distorte (uno dei momenti migliori dell'intero "Insurgentes") viene delusa, e quest'ultimo è trasformato in due minuti di noise-metal piuttosto canonico. Anche nella successiva title track di "Insurgentes" la ritmica forzata finisce per stuprare l'onirica suggestione dell'acquarello voce-piano dell'originale. Il lungo pastiche di jazz, progressive ed esperimenti dell'inedita "Luminol" promette bene per il futuro, lasciando intendere che il prossimo album (di cui il pezzo farà parte) sarà con ogni probabilità un'evoluzione del sound di "Grace For Drowning" verso lidi maggiormente rumorosi. Ma il momento migliore dell'intero concerto è rappresentato dai ventitré incredibili minuti di "Raider II", idealmente introdotta dal primo, breve capitolo presente su "Insurgentes" e intitolato solo "Raider". Il pezzo, eseguito nella sua interezza ma ricco di divagazioni ed espansioni, è un frullato di tutti i sentieri battuti da Wilson nella sua carriera: psichedelia, prog, hard-rock, jazz, metal. Interpretabile come il suo "musical box", dal vivo concede un'esperienza sensoriale a trecentosessanta gradi, dimostrandosi forse il punto più alto raggiunto da Wilson nella sua lunga e multiforme carriera.
La band si esprime in maniera superba, il pubblico si divide tra coloro che restano ammaliati (come il sottoscritto) e quelli che invece si muovono incessantemente per tutta la durata del pezzo.
Il concerto potrebbe concludersi qui, ma l'acclamatissima band ritorna in scena giusto per concedere, ormai d'obbligo morale, il canonico bis: lo spietato prog-punk di "Get All You Deserve", in grado di far sfogare agli spettatori le poche forze rimaste: alcuni tentano addirittura di innescare un "pogo", e per poco non riescono nel loro intento. Prima di andarsene Minnemann conclude la sua serata da protagonista, tentando una battuta in italiano: non si capisce minimamente quel che voglia intendere, ma il pubblico scoppia lo stesso a ridere, forse più per la soddisfazione per la riuscita del concerto che per la battuta in sé.
Le conclusioni sono principalmente due: la prima è la constatazione di aver assistito a un concerto meraviglioso, ben oltre quanto era lecito attendersi, probabilmente molto migliore di quello che Wilson avrebbe offerto con la sua band originaria. La seconda è la coincidente osservazione di un musicista completamente diverso da come ce lo si ricordava. L'impressione è che per il buon Steven la possibilità di suonare al dì fuori del suo progetto principale figuri come la liberazione da una gabbia, fatta di attese, cliché, standard e concetti: il Wilson di "Grace For Drowning" e di questo tour è un musicista che bada molto meno alla testa, e molto più al cuore, cosciente di poter esprimere ciò che vuole, incurante di quello che fan e critica possano aspettarsi. E il recitare questo ruolo pare davvero giovare a lui, alla sua musica e a coloro che hanno avuto la fortuna di poter assistere a una performance della sua band. Il tutto, ovviamente, senza nulla togliere a un grande gruppo quale hanno dimostrato di essere i Porcupine Tree, ma ad oggi, almeno dal vivo, Wilson batte Porcupine 1-0.