
L'Oscar di Milano è un teatro anomalo e variegato per l'occasione, nel pubblico e nelle forme inusuali per un concerto rock. Buona parte degli spettatori siede perchè paga un abbonamento all'intera rassegna "MiTO Settembre in Musica", manifestazione che sta portando tra Milano e Torino artisti come Braids, Dente, Appino; un pubblico anomalo ed eterogeneo per un luogo raccolto e rappresentativo: il teatro Oscar porta a occhio e croce un centinaio di persone, che si raccolgono strette verso il palchetto di modeste dimensioni.
Il Fender Deville è in stand-by sulla scena, mentre le attese ore ventidue sono giunte ormai da venti, venticique minuti. Ecco che i Tuareg fuoriescono, chiamati ritimicamente dai plausi dei "grigi" in sala: l'umile Bombino si presenta a mani giunte e saluta gentilmente, sommerso invece dal calore latino della platea; imbraccia la chitarra e, come accadrà per ogni pezzo della serata, propone quel gesto di buona sorte accarezzando la sua Fender Mustang, partendo dal ponte e arrivando al manico, con il palmo della mano destra leggermente racchiuso, sospirando profondamente prima della partenza.
La lenta "Her Tenere" è scelta per sciogliere i nervi e connettere le menti dei musici e degli spettatori, rigidamente timidi i primi, compostamente seduti i secondi; dalle retrovie si scorge un gruppo ristretto di "Tuareg Milanesi", vestiti di folklore e in completo trasporto con il nigerino sul palco, che non tarda poi molto a scaldarsi e a trasportare se stesso nel melodico soffio del deserto.
Un Nomad Tour in verità un poco bugiardo, perchè dell'ultimo lavoro "Nomad" vengono proposte la suddetta "Her Tenere", la splendida "Imuhar" e l'apertura del disco "Amidine", lasciando l'amaro in bocca a chi, come il sottoscritto, attendeva almeno la trascinante "Azamane Tiliade". Resta il fatto che l'oretta e mezza scandita da dodici esibizioni sia stata qualcosa di entusiasmante: il chitarrista nigerino - accompagnato da un'educata ensemble composta da basso, chitarra e batteria - ha deliziato con il suo blues a tinte africane, misticandolo con scenari reggae ed esplosioni colorate di patchanka dei miglior Mano Negra.
Gli effetti si mostrano palesi: dopo due-tre canzoni qualcuno tra il pubblico rumoreggia sulla seggiola di velluto rosso, non sta nelle gambe, tanto ch'è mosso da una forza foresta ad alzarsi in piedi e raggiungere saltellante il fondo della sala. Qui può muovere l'animo entrando in contatto coi Tuareg di cui sopra, che ormai dal principio si dimenano e colloquiano con Bombino; già, quel fanciullesco trentenne che dopo ogni canzone ringrazia con un merci, con un gracias e che quando si fa notare che la parola giusta sarebbe grazie, annuisce, ma ritorna cortesemente sul merci, tra le risate genuine del pubblico.
Quei "furester de Milan", i Tuareg, sono talmente coinvolti che a metà concerto sulle note infuocate di una patchanka-blues tratta da "Agadez" - il precedente lavoro di Bombino - si pongono prima dinnanzi al palco, per le danze, e poi lo scalano con estrema naturalezza abbracciando e baciando quello con le "mani di velluto" e i suoi artigiani; è chiaro che da questo momento il live cambia faccia, la pacatezza viene accartocciata e lanciata a forte velocità verso un nuovo modo di intendere le cose. Tutto il pubblico inizia a movimentare e, sul finire, almeno i trequarti sono danzatori senza gabbia davanti al capo Tuareg, che non si scompone, ma mostra in maniera inequivocabile il piacere di quella visione.
I saluti finali sono addii veritieri, non prevedono l'encore, ma i meneghini lo acclamano e richiamano l'ossuto e riccio di Agadez, che rientra e chiude una serata luminosa di settembre con un trascinante rock controtempistico, furia di diteggiature arabesche che lasciano il pubblico in delirio e stampano un sorriso sincero sul volto del "Pastore del deserto".
Foto di Davide Micci