07/05/2013

Lana Del Rey

Mediolanum Forum, Assago (Mi)


“I sing the body electric”, proclamava Walt Whitman. Lana Del Rey gli fa solennemente eco, citando i suoi versi senza timore di suonare pretenziosa. “Elvis is my daddy, Marilyn’s my mother”, canta in “Body Electric”: la pop art ai tempi di Instagram, verrebbe da dire. Tasselli essenziali dell’iconografia che la cantante americana ha costruito intorno al proprio personaggio: un po’ femme fatale lynchiana, un po’ diva della retromania, Lizzy Grant ha saputo indossare alla perfezione i panni del proprio alter ego Lana Del Rey, dando corpo a una figura di popstar fuori dai cliché, capace di assumere tratti inconfondibili con appena un album alle spalle.
L’immagine del corpo elettrico diventa allora qualcosa di più di una citazione altisonante: l’elettricità come metafora della vibrazione del desiderio, da respirare tanto nell’ebbrezza di un nastro d’asfalto che si perde all’orizzonte quanto nel calore di una platea impaziente di lasciarsi ammaliare dalla sua voce.

Nata come fenomeno indie, cresciuta in tempi da record fino a conquistare il grande pubblico: l’affermazione di Lana Del Rey sfida i confini tra categorie ormai logore come musica alternativa e mainstream. Lo testimonia anche il cambio di location della tappa milanese del suo “Paradise Tour”: la sede originaria dell’Alcatraz non basta a soddisfare le prevendite, gli spazi più ambiziosi del Forum restano ben distanti dal sold out. Non c’è da stupirsi, quindi, di trovare tra il pubblico ragazzine accompagnate dai genitori accanto a gruppi di trentenni indie-chic.
Eppure, l’enfasi sul personaggio Lana Del Rey riesce una volta tanto a non mettere in secondo piano la musica. L’allestimento del palco, con il suo sfoggio di palme, lampade retrò e leoni di bronzo, sembra sbucare direttamente dal set di qualche puntata di “Mad Men”. Ma non si tratta di una scenografia fine a sé stessa: tutto appare funzionale a una direzione musicale ben precisa (a cui calza a pennello la formula già coniata di "Hollywood sadcore"), capace di evocare un intero immaginario fatto di cimeli dell’America vintage. L’entrata in scena di Lana Del Rey, allora, è la celebrazione di un’icona ideata senza lasciare nulla al caso, ma è anche la definitiva smitizzazione della sua aura di divismo.

Lana Del ReyLana fa il suo ingresso sul palco protraendo l’attesa sulle note di “Cola”, direttamente dall’ultimo Ep "Paradise". Il vaporoso abito arancione sa di notti d’estate immerse nel profumo del vento, mentre la profondità della voce gioca a rendere morboso persino il pensiero di una Pepsi Cola. Lana scende subito tra il pubblico, concedendosi ad abbracci, autografi e fotografie con i fan delle prime file. Una scelta inusuale, che mostra tutto il desiderio della cantante americana di creare sin da subito un legame più diretto con la platea, superando il senso di distanza suggerito di un’immagine in apparenza così altera.
La presenza scenica da algida supermodella è meno statica della famigerata esibizione al "Saturday Night Live", pur restando il punto debole di una performance che cerca in buona parte il suo carisma proprio nel senso della rappresentazione. Lana si china a sorseggiare il suo drink, si espone al soffio di un ventilatore che le solleva la gonna in perfetto stile Monroe: sono in pratica le uniche eccezioni al suo ondeggiare ipnotico attraverso il palco. Eppure, quello che emerge sotto i riflettori è il lato più leggero e solare di un’artista che si rivela capace di non prendere troppo sul serio la propria maschera.

Le movenze sinuose di “Blue Jeans”, con le loro suggestioni da Chris Isaak in versione trip-hop, conquistano le prime ovazioni di un pubblico pronto a rispondere con trasporto al minimo suggerimento (compreso l’omaggio di rito all’Italia messo in scena da Lana in “American”, trasformata in una “Italian” dal sapore un po’ ruffiano).
Tra le orchestrazioni di “Born To Die” e il lirismo di “Carmen”, non sono solo le hit dell’album d’esordio a tenere banco. Accanto alla consueta cover di “Blue Velvet”, Lana Del Rey presenta il nuovo brano scritto per la colonna sonora del “Grande Gatsby” di Baz Luhrmann, “Young And Beautiful”, e si spinge persino ad accennare la dylaniana “Knockin' On Heaven's Door”: la versione è quella dei Guns ’N’ Roses (ovviamente più consona alla sua reputazione da bad girl), ma tradotta in una veste rarefatta, alla maniera di una Nancy Sinatra post-moderna. E non è un caso che, proprio dal repertorio del duo Hazlewood/Sinatra, Lana Del Rey abbia scelto di interpretare in passato la classica “Summer Wine” in coppia con Barrie-James O'Neill (attuale boyfriend e voce dei Kassidy, chiamati ad aprire la serata).

Lana Del ReyLa pausa prima del set finale è accompagnata dalle immagini del cortometraggio girato per “Ride”, che si dipanano sul fondo increspato della scena come un vero e proprio manifesto del “lanadelreysmo”. Tra “Easy Rider” e la beat generation, tra natura selvaggia e strade perdute, il recitato di Lana ambisce a un respiro più cinematografico che mai: “Sognavo di diventare una meravigliosa poetessa. Per una serie di sfortunati eventi ho visto quei sogni distruggersi e dividersi in milioni di stelle nel cielo notturno, sfavillanti e infranti, e ho continuato ad affidare a quelle stelle i miei desideri ancora e ancora. Ma non mi importava davvero, perché sapevo che bisogna ottenere tutto ciò che si è sempre desiderato e poi perderlo per capire che cosa sia veramente la libertà”.
L’immedesimazione dei fan con Lana Del Rey, insomma, non è fatta solo di cerchietti floreali tra i capelli. È qualcosa che ha più a che vedere con il personale “boulevard of broken dreams” tratteggiato dalla cantante newyorkese nella galleria delle sue canzoni. Un risvolto notturno del sogno americano che rivendica la sua discendenza dalla promessa springsteeniana, espressamente evocata nei versi di “American” (“Springsteen is the king, don’t ya think?”). È lì che si nasconde l’anima del modernariato di Lana Del Rey: nella fiamma di desiderio che spinge al limite della velocità il motore di “Burning Desire”, nell’estate malinconica che percorre i suoi brani come un filo sottile. E proprio “Summertime Sadness” condensa in sé l’essenza della serata, con il suo declinare spleen adolescenziale e ganci melodici in un marchio capace di imprimersi a fondo nella memoria.

Anche quando gli accenti virano verso una facilità più marcatamente radiofonica, come sulle note di “Without You”, lo sguardo non rinuncia all’ammiccamento meta-pop (“Am I glamorous? Tell me, am I glamorous?”). “Video Games” galleggia sul piano con il suo fascino decadente, raccogliendo come da copione l’entusiasmo del pubblico, mentre i beat enfatici di “National Anthem” finiscono per annacquare i tratti meno scontati della personalità di Lana Del Rey.
La backing band, rafforzata dall’apporto di un quartetto d’archi tutto al femminile, riproduce le atmosfere dei brani di “Born To Die” senza particolari guizzi, assecondando un’esibizione fatta anche di insicurezze ed esitazioni. Elementi tutto sommato prevedibili, di fronte a una popstar ancora ai primi passi della propria ascesa. La brevità della scaletta e la sostanziale uniformità del repertorio restano alla fine gli interrogativi maggiori sul fenomeno Lana Del Rey. L’inconcludente jam session finale su “National Anthem”, soprattutto, suona come un’appendice completamente avulsa dal contesto della serata, utile solo a fare da accompagnamento a un nuovo, lunghissimo bagno di folla. Oltre a permettere al concerto di superare il minimo sindacale dell’ora di durata.

Poi, Lana raccoglie tutto – ma proprio tutto – quello che le è stato lanciato sul palco, dai cartelloni alle immancabili bandiere a stelle e strisce, e lascia la scena dispensando a tutti sorrisi. No, non sono sorrisi fasulli. Esattamente come non sono fasulli i sorrisi delle Marilyn di Andy Warhol. Sono i termini della questione a essere mal posti: Lana Del Rey non è che un emblema di quella stessa cultura pop di cui si è fatta voce. Non ha senso chiedersi se sia autentica o meno: quello che conta è soltanto la storia che ha da rappresentare.