10/05/2013

Lento

Init, Roma


Formazione a cinque con tridente centrale che macina suoni in maniera impressionante. Le due chitarre, affidate a Lorenzo Stecconi e Donato Loia, sono poste agli estremi; centrale, il basso pulsante di un irriconoscibile Emanuele Massa. Tre esempi piuttosto atipici dell'essere post-something nella Roma degli anni Zero. Stecconi, mohawk e pose degne del compianto Jeff Hanneman, è puro metal-upon-your-face. Loia "più che un seguace dei Neurosis sembra uscito dai National" di Matt Berninger, come sentiamo dire, ma senza accezione negativa, anzi, svecchia un po' i cliché del genere e spezza la monotonia total-black. Massa, invece, è posseduto. Semplicemente. Facciamo così un'enorme fatica a riconoscere, dietro quella sorta di danza ipnotica e rituale fatta con il suo Rickenbacker, il ragazzo statico di cinque anni fa. Evidentemente i tour in Europa gli hanno sciolto le giunture e noi non possiamo che rallegrarcene.

Poco dietro, Federico Colella, alla batteria, sembra il primo a gioirne; seguendone il tiro con colpi precisi e fragore di piatti. La fascia è coperta dai synth e dalle tastiere di Paolo Tornitore (nei Lloyd Turner, assieme allo stesso Loia); rosso-crinito, degno sostituto del dimissionario Giuseppe Caputo (terza chitarra fino ad "Icon") che sposta l'equilibrio della band verso ulteriori inedite derive.

Ma come siamo arrivati a questo punto con i Lento? Quando è uscito "Anxiety Despair Languish", terzo disco dei romani, quinto se contiamo lo split e il live, "tra raziocinio e bruta heavyness", il collega Francesco Nunziata forse non ha saputo cogliere appieno il senso ultimo del disco in sé, fermando la sua valutazione a un giudizio tiepidino che di "stellette" alla fine ne aveva solo cinque e mezza. Comunque, per i Lento, sostanzialmente un successo. Spieghiamo.

Quando la musica moderna gioca le carte della sperimentazione, spesso crea pareri discordanti. E quando gli sperimentatori si confrontano con l'esterno, creano sempre scandali, generano discussioni, fanno storcere il naso, suscitano livore o pura e semplice ilarità.
Credo che sia per questo motivo, e non per altro, se dal giorno della loro formazione i Lento sono stati apostrofati con parole aguzze ma che con la musica in senso stretto hanno avuto sempre poco (pochissimo, praticamente nulla) a che fare. L'impossibilità di decifrare con certezza il loro messaggio sonoro, che di sicuro semplice non è, si è tradotta in commenti da forum riguardanti il loro aspetto estetico, le amicizie, i cambi d'etichetta, l'idea di preferire (almeno apparentemente) l'Europa all'Italia. Who cares?

Ora, non vogliamo certo paragonare i Lento a John Cage, ma, dopo averli visti dal vivo una miriade di volte, possiamo sicuramente dissociarci da tutte quelle recensioni che tendono a inquadrarli in un filone (quello post-hardcore) che ormai può rappresentarli soltanto per comodità. Tutto sembra caotico, invece niente è lasciato al caso. Pattern ritmici e armonici si susseguono dando un piacevole senso di déjà vu. Ma vengono ogni volta smantellati, cotti bene e rimessi in tiro un'altra volta, con rinnovata originalità. "Anxiety, Despair Snd Languish" comincia a dare forma all'atmosfera dilatata e pesante con una folata di nebbia artificiale: di certo un incipit né confortante né facile, ma perfettamente adeguato come anticamera per la sala che man mano si riempe.
Quando è la volta di “Glorification Of The Chosen One", dilatata in quattro minuti di durata, spuntano vecchi loghi degli Swans e nuove magliette dei Celeste e l'attenzione e l'emozione salgono. Peccato solo che il background medio degli astanti li blocchi a un banale headbanging che, visto dal lato del palco, interrompe il fluire del magma e rende tutto un po' più farsesco.
Siamo d'accordo, il muro del suono è denso, grumoso e stordisce come deve, ma limitare tutto a una mera questione di "scapocciamento" è quasi un peccato mortale.

Una selezione di due tracce dal debutto “Earthen” e quattro dal secondo “Icon” è sufficiente per scoprire quale sia l'anima mastodontica e inquieta dei Lento: geniale detonazione di semplici input che messi assieme lasciano senza fiato. E alla fine quello che sfugge è proprio l'idea di tutte le possibili influenze dei cinque. Ed è quando inizi a renderti conto di questo piccolo grande dettaglio, in quell'attimo, in quel preciso momento, che vai al su di giri. Capisci la vera misura dei Lento.

"A Necessary Leap” è un altro dei momenti salienti, a tre quarti del set, con il suo incedere marziale. Il gruppo che ha mandato in brodo di giuggiole persino quei monoliti d'umiltà (e di originalità) degli Ufomammut, dalle prime esibizioni live, è cresciuto da un livello già buono a uno assai vicino alla loro personale eccellenza. Il tessuto chitarristico è fatto di continui cambi armonici che fanno respirare il suono e gli danno il giusto slancio emotivo, il ritmo è squadrato e scarno, e la sensanzione che ne esce è quella che i Lento, minuto dopo minuto, stiano prendendo le distanze da Aaron Turner e soci per suonare quello che più gradiscono come più gradiscono.

Ogni accordo e ogni cambio sono pura ispirazione personale che fa dei Lento i Lento e basta: un'entità oramai a sé stante, che merita tutta l'attenzione del caso. Uscire indenni da un live del genere è un'impresa ardua, ma affascinante, e i sensi vengono stimolati come di rado e messi a dura prova. In conclusione, un dannato massacro in un venerdì sera romano che non ti aspetti con un bassista indemoniato che dà tiro e ritmo a tutta una band. Se il livello è sempre così alto, perderli sarebbe un suicidio.