11/04/2013

Matthew E. White

Hiroshima Mon Amour, Torino


Era stata una di quelle sorprese che capitano assai di rado, estemporanee e mai pienamente decifrabili, l’esordio la scorsa estate del talentuoso musicista di Richmond Matthew E. White. Esperienza rinfrancante perché lontana anni luce da buona parte delle risapute influenze in auge nell’attuale (un po’ asfittica) scena alternative cantautoriale, ma anche spiazzante bizzarria a cavallo tra generi apparentemente distanti, di non troppo agevole assimilazione e, forse anche per questo, particolarmente preziosa per l’incauto ascoltatore privo di pregiudizi. A neanche otto mesi dall’uscita (tre dal rilancio della Domino in Europa), anche il pubblico italiano ha potuto saggiare la qualità dell’originalissima proposta del pacioso cantante della Virginia, per quanto in una forma inevitabilmente ridimensionata rispetto alle mirabolanti evoluzioni alchemiche catturate in studio di registrazione con uno stuolo impressionante di musicisti e collaboratori. Non certo il pubblico delle grandi occasioni quello accorso all’Hiroshima di Torino per cercare conferme dalla riproposizione live di quelle canzoni, ma comunque una platea numericamente apprezzabile, attenta e molto calorosa, per un artista emergente che da queste parti ha sin qui ricevuto assai meno attenzioni di quante avrebbe meritato. Senza smentire le impressioni dei profani, si è presentato con grande timidezza ai suoi spettatori il corpulento statunitense, poche flebili parole e identico look delle immagini promozionali: barbone professorale, capelli lisci sterminati e raccolti sulla schiena in una coda, camicione hippy e una chitarra soltanto, suonata con impeto variabile dal primo all’ultimo minuto di show.

Assieme a lui una formazione nutrita, ma assai più ridotta che su disco. Bassista, batterista, percussionista a ingrossare le fila di una sezione ritmica corposa e versatile, con il solo ausilio di un ulteriore (fondamentale) musicista a curare tastiere, inserti sintetici e suoni campionati per assicurare ai brani almeno una pallida replica della profondità e delle coloriture che arrangiatori ed orchestrali garantivano in maniera copiosa e avvincente. Niente fiati quindi, e un po’ l’assenza ha pesato. mattheewhite_270x220_iL’impronta minimalista quasi per necessità ha cambiato (anche se non stravolto) nuovamente i connotati alle gemme di “Big Inner”, orientandone lo sviluppo e la resa dallo spettacolare pop sinfonico contaminato e dalla psichedelia bandistica degli originali ad un country vivace screziato di blues e a marcate derive jazzy (merito del batterista Pinson Chanselle) o etno-folk (specialità del notevole Scott Clark) comunque piacevoli. Più Fight the Big Bull che Matthew E. White quindi, almeno all’inizio, con gli interventi vocali del frontman pesantemente limitati dal basso troppo invadente di Cameron Ralston e dall’inatteso protagonismo di congas, tamburelli e lattine di the riempite di sabbia. Poco alla volta Matt è però uscito dal guscio prendendo in mano le redini del suo gruppo, lasciandosi andare a qualche battuta e rilanciando le azioni del collettivo in area soul e black, ristabilendo così almeno in parte le premesse della vigilia.

Con “Big Love” il gioco ha iniziato a diventare davvero accattivante, anche perché le intromissioni effettistiche e i sottili strappi elettronici nella dote di Gabe Churray hanno vivacizzato – e di molto – l’esibizione pur senza cadere nell’effetto replica. La chitarra ne è uscita corroborata come la performance di White, meno statico a centro palco e assai divertito dalla risposta del pubblico. mattheewhite_270x220_iiiUna bella cover del nume tutelare Randy Newman ha aggiunto brillantezza ma l’apice è arrivato – e non poteva essere altrimenti – solo qualche minuto più tardi, con l’interminabile progressione strumentale di “Brazos” e il suo gospel incendiato in una coda elettrizzante e rumorosa. Conclusione degna, come sull’album, giunta purtroppo dopo appena un’oretta dal via e senza possibilità di rilancio in un bis omesso forse per non guastare l’intensità del congedo. All’appello mancava solo “Hot Toddies”, e non sarebbe stato male vedere come il trentenne di Richmond avrebbe riscritto lo scuro sinfonismo del pezzo. Applausi convinti alla fine anche se la prova, penalizzata come si è detto, è rimasta in parte sotto le attese. Abbastanza carne al fuoco e personalità, ricordando che si trattava pur sempre di un esordio, prospettive di crescita incoraggianti ma genio con la “G” maiuscola non del tutto suffragato. Serviranno ulteriori accertamenti, in studio come dal vivo, per spingerci ad azzardare sentenze veramente importanti.