
Milano, Magnolia, 28/02/2013
Ci ha romanzato la serata, come uno scrittore romantico sa fare. E non la stazza o la capigliatura han destato maggiore impressione o han permesso al rarefatto pubblico del Circolo Magnolia - per una sera trasformato in un caffè di fine Ottocento - di prestare attenzione al narratore. Sono state la poesia, la genuinità dell'uomo Timothée Régnier - gigante transalpino che viaggia per il mondo con il nome di Rover - a incantare lo spettatore milanese, in una tiepida serata di febbraio, ben lontana dal freddo intenso delle passate.
Ammettere la curiosità per la sessione live di un album dai riscontri fortemente positivi sulla stampa di settore pare scontato; aumentarla, causa live session composta dal solo duo monsieur Rover (voce, chitarra, tastiera) et monsieur Arnaud Gavini (batteria, pad), è invece un dovere.
La sorpresa cantautorale tra gli chansonnier di fine 2012 ha saputo offrire uno spettacolo egregio, non esagerando nei tempi e nei modi, raccogliendosi nell'intimità e nell'emozione che non han tardato a emergere sul palco e nel circolo.
Rover si presenta al pubblico nella "tinta unita" ormai proposta frequentemente nell'interviste web: giacca di pelle nera, pantalone a sigaretta, stivale anni '80; è accompagnato dal giovane batterista Gavini, timidamente gentile nell'osservare la raccolta platea di ascoltatori. I due attaccano con una versione alternata di "Queen of the Fools", riletta in chiave rock primi Deep Purple, con chitarra distorta da un overdrive educato ma tosto, come la voce di Rover, la quale non sbava, pur innervosita dalle riflessioni liriche del pezzo; il pubblico saluta l'esordio in maniera più calda di quanto si potesse attendere."Champagne" scorre via senza troppe degustazioni, volta ad introdurre una versione di "Remember" molto soffice e sognante, con Gavini che alterna ottimamente i pad elettronici per creare uno spazio nebbioso, rallentato, in cui Rover si permette di stirare le note, allungarle quel tanto da concedere una rappresentazione del "ricordo" molto più romantica e intima al confronto della versione su disco. Mentre il consenso del pubblico perpetua nel battito di mani, il cantautore passa alla tastiera, incominciando a scaldarsi per davvero, sbottonandosi, levando la sciarpa prima conficcata nelle profondità del colletto del pesante giubbotto.
I tasti della Roland pronunciano le prime note meste di "Silver", ben interpretate dal chansonnier, che non delude anche quando propone i primi falsetti della serata, e che, sul finire, aprono alla bonus track "Berenice", ottimamente scelta come coda di chiusura, con un risultato molto più avvolgente e significativo rispetto l'ascolto isolato su disco.
La tanto attesa linea romantica decadente, intrisa di folk metà anni '70, arriva con "Lou", quando Rover spoglia i panni del rocker - la giacca è appoggiata ai box che fiancheggiano il palco - rimanendo in possesso della sola voce, nuda e nitida, e della chitarra arpeggiante riscaldata dai rintocchi vellutati del rullante di Gavini. Si tratta del prologo al singolo "Acqualast", il pezzo che lo ha lanciato in Francia e reso noto nel resto d'Europa: l'intesa artistica tra i due musicisti raggiunge l'apice, con un feeling totale nel gestire le pause, gli attacchi e le chiusure; Rover mostra forte sicurezza nelle proprie doti vocali per l'intera linea della canzone e in special modo nel ritornello e nel finale, poco prima di essere accolto dal fragore di un pubblico sensibilmente soddisfatto e divertito.
E' il momento centrale dell'esibizione, in cui Régnier si concede completamente al suo pubblico, testimoniando la tristezza che lo avvolge nel cantare la seconda bonus track della serata, "Father I Can't Explain": un pianto sentito, un blues dichiarativo alla ricerca di spiegazioni non dette quando il tempo l'avrebbe concesso, nel quale i sospiri di Rover coinvolgono i controcanti lamentosi di una "chitarra nera e schiava" dell'America degli anni '50.
Il salto temporale è notevole nel momento in cui i due propongono in sequenza "Late Night Love" e "Tonight", tributando gli onori degli anni 80, un periodo musicale evidentemente apprezzato dal chansonnier francese. Le linee melodiche di tastiera sono sostituite da una chitarra base overdrive e intenso delay in "Late Night Love", in cui le capacità del giovane Arnaud Gavini emergono completamente: tocco gentile, ma deciso, che alterna sapientemente l'utilizzo dei piatti e del timpano e che coglie in maniera eccellente l'evolversi emotivo di ogni singolo tratto di canzone. Rover è d'altro canto caldo, ormai: la sua voce è sorniona e potente e con Tonight sottolinea le proprie velleità cantautorali e artistiche, tenendo un passo notevole per tutta la traccia, che si conclude con il godibile intreccio di cassa e falsetto.
A testimonianza della rappresentazione, dell'esposizione e quindi della nomea di gigante romantico che attorno s'è creata, Rover si congeda dal piccolo palco milanese con "Wedding Bells", interpretandola alla tastiera, stringendosi in una melanconia tipicamente retrò, che scava nel profondo sentimentale di ognuno e mette a contatto le ferite non rimarginate con cascate di alcool etilico. Il pezzo è intenso e lascia nel pubblico quel senso di incompiutezza caratteristico degli animi romantici: Rover esce di scena, ma il pubblico ha ancora fame. Nessuna recriminazione comunque, vista l'ora di live ottimamente eseguita e le capacità dell'artista francese di trasmettere sincerità e sentimento all'interno di un'esibizione che, se possibile, ha superato in positivo sia le aspettative che le recensioni dell'album.
Roma, Circolo degli Artisti, 02/03/2013
Mentre stiamo viaggiando su un 105 stracolmo di lavoratori extra-comunitari, facciamo un po' di fatica ad immaginare che stiamo andando incontro a Rover. In testa, più delle sue canzoni a tinte melodrammatiche, abbiamo La Terra di Lavoro di Pier Paolo Pasolini. Soltanto quando il nostro sguardo si posa su una ragazza intenta a sentire della musica dal suo cellulare, il nostro viaggio in comincia ad avere lo spirito di un vero e proprio report.
Iniziamo allora a chiederci cosa ci aspetterà in questa manciata di ore da trascorrere con il francese: si è parlato tanto negli ultimi mesi di Thimothée Regnier, Rover appunto. Da una sponda all'altra dell'oceano e, come sempre accade, di rimbalzo anche da noi. Il suo omonimo disco è stato descritto con aggettivi lusinghieri come umbratile e sensibile, conquistando così una nutrita schiera di seguaci tra le fila del cosiddetto popolo indie (orfano degli Intepol) quanto tra palati soliti ad altri sapori. Più aulici, se vogliamo così dire. Bowie, Gainsbourg, Walker.
Essendo in missione per conto di OndaRock e non per quello di Pescare la Trota, è la disamina di Vassilios Karagiannis a ronzarci maggiormente in testa. Il nostro collega definì Rover, nel novembre del 2012 , come “un improbabile incrocio tra Antony e Gérard Depardieu”. Gagliardo, pensiamo intimamente. Eppure il nostro primo impatto è alquanto demoralizzante.
A parte l'improbabile acustica ormai caratteristica peculiare del Circolo degli Artisti, la formazione sul palco è ridotta a due sole figure. Timothée, imponente e iconografico come Meat Loaf nella tournée di “Bat Out Of Hell” del 1977, e un batterista alla sua destra. Piazzati in seconda fila, ci accorgiamo in un istante che quest'ultimo è stato amplificato così tanto da costringerci a indietreggiare di qualche fila per godere di un ascolto più umano possibile. Si vede che non siamo al Magnolia di Milano. Il resto del caratteristico sound di “Rover” è affidato interamente al primo. Regnier si divide quasi in egual misura tra la fida Rickenbacher (“E' veramente bellissima!”, ci confesserà raggiante poco più avanti), una tastiera sullo sfondo e poi, naturalmente, il microfono posto al centro del palco. Ecco. Qui arrivano le dolenti note e di colpo le ottime premesse del disco quasi si azzerano: l'incrocio degli strumenti e delle attitudini sostenute da un songwriting cristallino e accattivante che su disco crea una mistura stramba e tenera, pregna e sognante al contempo, non risulta infatti pervenuto.
Così, laddove anche il sanremese d'adozione Antony Hegarty, appare in qualsiasi contesto live un alieno piombato tra di noi da chi sa dove, capace di esprimersi come pochi esseri umani hanno saputo fare prima di lui, a Timothée Regnier piacerebbe soltanto. Anzi, “je piacerebbe!” - visto che siamo a Roma. All'atto pratico, ad avere un minimo di residuale onestà intellettuale, il trentatreenne chansonnier transalpino sembra un botta e risposta tra Morrissey e Glen Danzig, tra Elvis Presley e Matthew Bellamy. Rabbrividiamo. E ripassiamo nella nostra testa il numero di telefono del nostro analista.
Oltre la musica, anche lo stile diventa piuttosto indefinito. Si perde quindi un po' il senso della nostra presenza in loco, se non per dare notizia che Rover dal vivo ha poco (pochissimo, si fa fatica a intercettarlo) del Rover sul disco. Appare persino inutile citare quale canzone sia venuta meglio o peggio del lodatissimo omonimo album, perché comunque avrebbe ben poco di che spartire con il ricordo che vi portate nello zaino dai vostri ascolti domestici.
Eppure nei racconti dei colleghi che lo avevano visto in chiave acustica (vogliamo sperare non su YouTube) la soddisfazione sembrava essere stata totale. “La scelta di suonare in due è nata da questioni logistiche ed economiche, è inutile girarci attorno”, afferma il paroliere nel botta e risposta che ci concede, “Dovendo poi decidere quale strumento potesse rendere l'umore del disco, ho preferito la batteria per dare una maggiore solidità ai brani. La mia comunicatività del resto risiede nell'essere sincero e di creare comunque un filo emozionale verbale tra me, per come sono sopra e sotto il palco, e il pubblico”. Sarà.
Il locale non supera il centinaio di presenti dando la strana – ma in fondo in fondo anche un po' fastidiosa – sensazione di uno di quei concerti ai quali – se sei veramente-veramente hipster – non puoi mancare. Si incontrano così personaggi noti e meno noti della scena romana, intervallati da qualche sedere famoso che non metteva piede al Circolo da almeno cinque mesi. Tutti pronti a simulare fermo interesse, innata aplomb e imperitura verve nel commentare bonariamente la performance - effettivamente graziata da numerosi applausi.
Peccato solo che i pacati accenni del Duca Bianco più folklorico espressi da “Queen Of The Fools”, per dire, devono essere rimasti all'aeroporto di Fiumicino con i bagagli, abbandonando così la traccia a un magma pomposo e riverberato su cui avrebbe nutrito qualche titubanza pure Freddie Mercury. Uno che di ampollosità se ne intendeva.
“Mi piacerebbe veder confermata la mia idea di riuscire ad essere apprezzato da persone e in situazioni diverse tra di loro”, ci dirà poi il bel Timothée, “Sai dirmi l'età media delle persone che erano in sala oggi?”. Rispondiamo che c'erano molti trentenni e studenti universitari, ma pochi teenager e pochissimi adulti. “E' un vero peccato, i concerti dovrebbero essere un'esperienza corale e non dettata da preconcetti o divieti. Oramai di voglia di rischiare non ce n'è neanche un po'”. Concordiamo, ma gli facciamo presente che, al di là del populismo di “Imagine” di John Lennon, la musica è un po' come la politica, e alla fin fine tocca anche schierarsi da qualche parte.
Per un momento temiamo solo che si metta a parlare anche lui di Beppe Grillo, ma le nostre silenti preghiere per scongiurare il dramma vengono esaudite: “Ho un approccio decisamente cantautorale, credo, ma sono anche un grande fan di Beatles e Brian Wilson, ma non solo. Ascolto persino i Joy Division. Si tratta di periodi della mia vita legati alla musica pop, tutti in egual misura affascinanti e molto creativi e intensi”.
Proviamo a chiedere come definirebbe allora il suo progetto, ma lo facciamo invano. Osiamo un “Revivalista?” à-la Simon Reynolds per smuoverlo ma ci sorride sereno e bonario, ripetendo ancora: “Proprio non lo so”. Il concerto a cui abbiamo assistito si chiude con Timothée che saluta tutti dal palco con una vistosa sciarpa al collo per proteggere le monolitiche corde vocali; un ex-collega di una rivista cartacea rinomina caustico Meat Loaf e un cerchio sembra chiudersi. A noi non rimane che tornare a casa pensando a quanto l'innata finezza delle liriche e l'indubbio mestiere forgiato nei modi e nei tempi in giro con i The New Government abbiano salvato questa serata dal totale tracollo. Nell'attesa di rivederlo, magari in una delle tante elogiate versioni acustiche, i Mott The Hoople ci fanno compagnia su un 105 ormai deserto con “Sucker”, occorre aggiunger altro?
Contributi fotografici di Stefano Ferreri (Milano) e Franz Bungaro (Roma)