30\05\2013

Vatican Shadow

Teatro Lo Spazio, Roma


Non conoscevo il Teatro Lo Spazio, dietro San Giovanni in Laterano a Roma, ma sapevo che stava diventando un nuovo tempio della techno, grazie anche al precedente set di Rrose che mi ero malauguratamente perso.
Una sgradevole perdita che non volevo ripetere con l'avvento di Dominick Fernow nell'uniforme di Vatican Shadow, che nelle ultime (bulimiche) uscite era riuscito a esaltare tutta la fauna drogata di techno dai riflussi più marci e industriali.

La serata inizia in maniera quasi liturgica con il set di Mai Mai Mai. Entità sconosciuta, nascosta dietro stracci da bagatto o forse da antico monaco, si mostra in una aliena liturgia dai toni magmatici oscuri.
In una fusione continua tra meccaniche techno, rigurgiti fagocitanti noise e collage rumoristico, nasceva di fronte a visual confusi una dark-ambient organica e fluida, che danzava in maniera malata tra fili confusi, circuiti continuamente manomessi, mangianastri stuprati e cassette divorate. Un set di profondo impatto emotivo, che raccoglieva il fascino dei Demdike Stare più cupi e pessimisti, insieme a quell'energia orgasmica e tribale che poco dopo avrebbe saturato l'ambiente, quella della techno ortodossa di Fernow.

Un'ortodossia che trascende la semplice energia per giocare con la violenza in un continuo sfondamento sonoro. Un percorso estremo che ha ripreso appieno le ultime due release: “September Cell” e “Ornamented Walls” e traduce la lezione di Regis che remixò il suo 12” “Iraqui Praetorian Guard”, per trascinare il pubblico in più di un'ora di furia elettronica.
Dominick si dimostra un animale drogato e assuefatto alla sua stessa rabbia, dimenandosi senza sosta, stoppando talvolta rapidamente il percorso e riprendendolo da un'altra direzione.
Un sadismo iperveloce, matematico e percussivo che non ha lasciato alcuno spiraglio di appiglio, di analisi, se non l'invasione passiva del corpo.

Alla fine del set, il locale sembrava essersi chiuso a formare una cassa di risonanza metallica di carne e sudore, un'esperienza totalizzante che di certo ha ben poco a spartire con il Fernow più ambient e dilatato di alcune recenti cassette.
Recuperare le rovine e ripartire è stato un lavoro difficile, piacevoli vittime di un pestaggio sonico senza compromessi che univa al sadismo estetico un tribalismo drogato e tecnologico.