06/04/2014

Mark Kozelek

Biko, Milano


di Enrico Viarengo
Mark Kozelek

Sale sul palco che non sono ancora le 8pm e dalle finestrone del Biko entra ancora un po' di luce.
Si fatica a trovare spazio per sedersi a terra mentre Mark Kozelek si siede composto, appoggia la chitarra sulle gambe e attacca “Gustavo”. C'è solo una fioca luce blu a illuminare il suo volto, più gonfio e contrito delle solite foto che girano in rete, quasi come quello di uno dei pugili delle sue canzoni, stanco dopo un match finito male.
Si scalda con la lunga confessione di “I Watched The Film The Song Remains The Same” prima di continuare con gli altri racconti tratti da “Benji”, dalla più sostenuta “Richard Ramirez Died Today Of Natural Causes” fino ad arrivare, verso la fine del concerto, alla commovente “Carissa” che conquista definitivamente un pubblico attento, immobilizzato nella sala buia del circolo Arci di Milano.
C'è poco autocompiacimento nei dolenti arpeggi che terminano con il click del pedale, senza un minimo di respiro finale. Tanti applausi, poi il silenzio di chi senza fretta controlla l'accordatura e apre bocca per terrorizzare un pubblico che ride delle battute spietate, ma che si domanda se la sfrontata sgarbatezza di questo individuo appartenga al musicista o all'uomo, se sia un ironico e indelicato modo per affrontare uno show di quasi due ore davanti a qualche centinaio di perfetti sconosciuti o la totale, onestissima, mancanza di rispetto di chi vuole mettersi a nudo nella vita così come nella musica, difetti compresi.

Ce n'è per tutti: la ragazza che bisbiglia in prima fila, facile preda per l'americano che pretende silenzio assoluto per mantenere alta la propria concentrazione; i locali e le città “di merda” del nostro paese, evidentemente troppo provinciali per chi vive dall'altra parte dell'oceano; il terribile pubblico maschile e attempato di Gand e delle ultime date del tour, che poco soddisfa un Kozelek sfacciato e esplicito con il gentil sesso. Insomma, se parli e fai foto, Kozelek ti accoltella, se chiedi il vinile dei Sun Kil Moon, sei uno sfigato e Kozelek ti accoltella comunque. Non c'è scampo per gli uomini con la barba e non c'è neanche merchandising, tanto “Benji” noi italiani lo ascoltiamo su Spotify.
Restano le lunghe e scarne canzoni dell'ultimo periodo, ritratto di un artista che innegabilmente è riuscito a crescere col passare degli anni. I fraseggi di “Black Kite” e “Elaine” sono la dimostrazione del talento di Kozelek come chitarrista d'impostazione classica, capace di curare le dinamiche con il minimo sforzo: da lontano sembra immobile, la mano destra è ferma eppure le dita si muovono a pizzicare le corde con delicatezza. Da “Among the Leaves” c'è anche spazio per la più solare “Sunshine in Chicago”, suonata con riluttanza perchè richiesta da qualche organizzatore del tour. Gli episodi migliori però, nonostante la mancanza della componente elettronica di Jimmy LaValle, arrivano da “Perils from the Sea”: “By the Time that I Awoke” e una ispirata “Caroline”, ennesimo tassello autobiografico e dolente: Kozelek canta “Caroline, are we runnin' out of time?” senza nascondere una certa tristezza e inadeguatezza per l'età che avanza, 47 anni compiuti a gennaio.

Non è più il ragazzo poco più che ventenne che cantava “Lord Kill the Pain” in “Down Colorful Hill”, scuro e affascinante esordio dei Red House Painters già intriso di solitudine e dolore. Perfino i Sun Kil Moon non sono più quelli di dieci anni fa, quelli di “Ghost of the Great Highway” per intenderci, in cui per un attimo musicalità e melodia sembravano condurre il gioco e la stessa voce di Kozelek pareva essersi alleggerita per dare più spazio, calore e colore agli splendidi arrangiamenti di quel disco.
Oggi la mente dietro il moniker Sun Kil Moon si è riappropriata in maniera ancora più personale e pura del malessere conturbante dei primi lavori, affrontato ora con una maturità stupefacente: le canzoni di “Benji” e del concerto di questa sera sono fiumi di parole che scorrono dolci o concitate sugli arpeggi tantrici e essenziali di una chitarra ormai priva sia di sbavature che di sfumature. Il potere ammaliante di queste canzoni sta tutto nella voce e nelle parole di Kozelek, cantante dal timbro unico e autore eccezionale.
Un peccato, certo, non sentire qualche vecchio classico Red House Painters, una “Carry Me Ohio” o “Salvador Sanchez”, ma è vero che quelle stesse altre canzoni – impossibile avanzare richieste causa rischio accoltellamento - sarebbero state reinterpretate secondo l'incedere dello stile attuale.

Se è vero che ci sembra di afferrare la bellezza della musica di Mark Kozelek, così intima e reale, capace di emozionarci con poche note empatiche, bisogna però ammettere che è difficile pensare di conoscere veramente un personaggio così complesso, un anti-eroe cinico e indecifrabile, proprio come l'impenetrabile Rust Cohle di "True Detective", citata dalla stesso musicista per via dei numerosi e tanto amati accoltellamenti. La soddisfazione di lasciarsi andare in un finale buonista come quello della celebre serie TV, lo scortese Kozelek non ce la darà mai.

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