Se è vero che “una rondine non fa primavera”, specie in questi tempi di guasti ambientali e bizzarrie meteo, ci si permetta di completare l’adagio con un più prosaico “ma i Motorpsycho sì”. E abitudine di quelle piacevoli, ormai, ritrovarli puntuali anche nel nostro snobbato paese con una bella manciata di nuovi appuntamenti e l’ennesimo disco fresco di stampa da presentare alle sempre ragguardevoli schiere di aficionados. E’ una fortuna, per chi scrive, che i caldi refoli rock da Trondheim abbiano scelto di soffiare per una volta anche a due passi da casa nostra, in una Torino che, tra chiusure di locali e programmazioni ogni giorno più sconcertanti, sembra cavalcare questo italico trend declinante con la poco invidiabile vocazione del perfetto modello negativo. Almeno per una sera, comunque, i rigori invernali di una piazza in evidente crisi depressiva restano confinati fuori dal portone dell’Hiroshima Mon Amour, e che l’aria si sia fatta più frizzante lo suggerisce anche la discreta ressa al di fuori del locale, impreziosita dall’inconsulta presenza di un furgoncino che vende panini con la porchetta e di un abusivo con tinozza ghiacciata e lattine di birra, in autentico clima festivaliero.
Ad accoglierci nel salone è un bel telo di sfondo personalizzato con la griffe del gruppo norvegese, oltre al ricco armamentario già regolarmente piazzato sul palco: la batteria monstre di Kenneth Kapstad, in trionfo al centro, con sulle ali due mellotron gemelli che si fronteggiano e, defilata sulla sinistra, l’ampia rassegna di bassi e chitarre dei due padri fondatori. Che non sono da soli, ce ne accorgiamo subito, essendo accompagnati al nostro cospetto – nel primo momento di tripudio – dal turnista svedese Nils Reine Fiske (già nei celeberrimi Dungen), tuttofare utilissimo che con qualche azzardo potremmo quasi spingerci a considerare il quarto membro della band, in questo particolare momento. E poi, archiviati i saluti di rito, si comincia. Assai presto, per gli standard cui siamo purtroppo abituati, presumibilmente per colmare ogni margine temporale e far sì che a giochi fatti si possa poi rendere conto di un minutaggio da fantascienza, almeno rispetto alle canoniche esibizioni nei club da nord a sud della penisola. Chi immaginava un avvio di quelli tonanti, a replicare le granitiche movenze psych degli ultimi lavori in studio, è smentito in maniera categorica dai quattro scandinavi in scena, con il batterista ai margini, in attesa, e i colleghi armati esclusivamente di chitarre acustiche, perfezione tecnica e squisite intenzioni. La vecchia “Blueberry Daydream” ci introduce in una di quelle magiche atmosfere folk che sembrano sospese in una terra di nessuno, fuori dal tempo, plasmate all’insegna di una delicatezza e una pulizia nel picking che sinceramente impressionano.
L’immacolata purezza della trama ricamata da Hans Magnus "Snah" Ryan e Bent Sæther non può che essere indice della loro perizia sovrumana, e questo è due volte più sorprendente, considerato il registro specifico, gentile fino al parossismo, che fatichiamo a riconoscere come realmente peculiare della loro arte. Non si tratta però di un caso isolato. Una dopo l’altra, quattro canzoni dal passato più o meno remoto della compagine nordica ci vengono proposte nella medesima chiave e con la stessa sbalorditiva misura, affidate alla voce dell’uno o dell’altro dei dioscuri, un paio recuperate addirittura dai tempi preistorici di “Demon Box” (“Come On In” e “Waiting For The One”). Non una sbavatura, non un fischio degli amplificatori a macchiare la prova semplicemente cristallina dei musicisti, mentre al di qua della transenna prevale finalmente l’intelligenza di una platea in religioso silenzio, vuoi per l’estasi dei più accaniti estimatori, vuoi per il timor sacro di tutti gli altri. Il criterio deve essere una virtù nebulizzata, stasera, perché i Motorpsycho non sono certo da meno dei loro spettatori e sanno bene come, insistendo ulteriormente con quest’identico canovaccio, l’assorta meraviglia degli astanti scemerebbe a velocità supersonica in una noia incolore. Ecco quindi il cambio di passo. Un concerto termina e ne inizia un altro, del tutto diverso. Kapstad sale in cattedra, letteralmente, assieme all’elettricità offerta dai compari, e il suo virtuosismo free spinge quasi in zona Primus i pachidermici cliché hard-rock (“On A Plate”) degli ultimi dieci anni di questa onoratissima carriera.
Con “Year Zero” vengono tirati in ballo i proverbiali “Little Lucid Moments” della formazione di Trondheim e il sound del gruppo si fa poderoso e plastico come non mai, arrembante e incline a una prolissità non malvagia. A lasciar sfumare tentazioni e derive progressive di questa fase pensa molto opportunamente l’inedita “Mockinbird”, presentataci nella sua prima assoluta dal vivo, che orienta verso una più ariosa leggerezza sixties le influenze, svelando un debito di riconoscenza oltremodo pesante nei confronti degli Yes.
C’è grande confidenza ora, ed è impossibile non accogliere come scherzose le parole di Bent – sempre più sosia di Gesù Cristo – nel presentare il brano successivo: “Prenderà non meno di tre quarti d’ora, la prossima”. Non saremmo mai e poi mai disposti a credergli, non fosse che quello che ci si prospetta in un’atmosfera decisamente più cupa e rarefatta è soltanto il primo dei sette movimenti del moloch “Hell”, monumentale esplorazione (già spalmata negli ultimi due album) che, tra cavalloni stoner, torrenziale jam lisergica e astrazioni space, ci vedrà occupati di fatto per una cinquantina di minuti. Nonostante alcuni frangenti di grande suggestione, è quasi inevitabile uscire un po’ provati da questa sorta di prolungata trance. Ma il dettaglio pare limitato ai soli osservatori, visto che gli artisti sul palco non esitano a ripartire più carichi che mai.
Ci sono ancora da portare a referto i migliori estratti dalla più recente fatica, persino più convincenti nella loro trasposizione live che non nella versione di studio. Soprattutto “Ghost”, davvero intrigante nella sua oscura malia. A inframmezzare stilisticamente la maggior coesione di quest’ultima porzione di show prima dei saluti – con Snah che si diletta spesso e volentieri con la sua doppio manico e Bent che eccelle nelle ombreggiature sintetiche in combutta con Fiske – interviene l’ulteriore inserto revivalista della cover di “August” dei Love, già proposto spesso dal vivo prima e dopo la sua pubblicazione in “Still Life With Eggplant”.
Ci sarebbe materiale sufficiente per lasciare tutti i presenti già ampliamente soddisfatti, ma i quattro scandinavi non sono affatto sazi, forse incoraggiati dalla risposta via via più euforica di un pubblico andato destandosi dopo il lungo torpore di prima. L’appendice degli encore funziona allora proprio come omaggio alla cieca devozione dei fan, e la festosa reazione pogatoria che infiamma le prime file dell’Hiroshima sulle note di “Psychonaut” (di fatto un messaggio d’amore ai seguaci indefessi), ribadita poco oltre con il salto indietro nel tempo di “Plan #1”, vale più di tante parole. Insaziabili, noi e loro, ci ritroviamo infine all’ennesimo rientro in scena, a condividere gli ultimi attimi di un’esibizione anche più generosa di quanto la fama dei norvegesi non racconti già. E’ “Kill Some Day”, il solo ripescaggio dal miliare “Timothy’s Monster”, e non basta la veste acustica a inibire gli astanti dal lasciarsi andare al singalong, in segno di abbraccio ai barbuti eroi con le chitarre venuti dal nord.
Dopo centosessanta minuti di spettacolo, gli inossidabili Hans e Bent se ne vanno, direzione Cesena e poi Germania. Sarà anche solo una coincidenza, ma il caldo estivo, quello vero, irromperà già l’indomani, dopo mesi di riserve climatiche e tepore incerto, avvalorando la frase fatta che vuole marginalizzata la primavera in quanto mezza stagione. Anche quest’anno, ad ogni conto, è tornata munifica a trovarci e ispirarci, e i Motorpsycho non sono stati da meno.
Encore 1:
Encore 2: