05/06/2014

Speedy Ortiz

Spazio 211, Torino


di Stefano Ferreri
Speedy Ortiz

Che fossimo un tantino scettici dobbiamo ammetterlo.
In aperta controtendenza rispetto alla critica statunitense – davvero un po’ troppo magnanima lo scorso anno nell’incensare quella sorta di secondo debutto che era “Major Arcana” – della nostra perplessità nei confronti degli Speedy Ortiz non abbiamo e non avremmo mai fatto mistero. Forse il problema è esclusivamente nostro, e dipende dalle proverbiali riserve che ci vedono incapaci di stare al passo coi tempi quando è di banali mode di ritorno che siamo costretti a disquisire. Parlare di semplice rigetto sarebbe anche più onesto ed efficace, ma ci piace concedere attenuanti generiche di tanto in tanto. La verità è che non siamo pronti per il revival degli anni Novanta: la testa ci gioca brutti scherzi perché a tratti rivela di esserci rimasta impigliata, e condiziona anche il cuore in quella che non può essere definita altrimenti che una perversa e sterile illusione. Non siamo pronti per gli Speedy Ortiz, furbi o meno che siano, e nondimeno eccoli bussare alla nostra porta in una fase in cui Torino sembra diventata periferia assoluta, succursale di una Sestri Levante qualunque, almeno per quanto concerne l’attività live in orbita di rock alternativo. Per una volta i mugugni restano quindi fuori e scegliamo di esserci, non fosse altro che per tornare a battere i tacchi sul palco di uno Spazio 211 in cui trascorrevamo non meno di due serate a settimana, qualche stagione fa, e dove manchiamo vergognosamente da più di un anno. L’opportunità di farsi un’idea in più sul conto della giovane band americana rimane elemento accessorio, che sfruttiamo con svogliatezza prossima al plateale.

speedyortiz_i_01Il locale che ci accoglie è praticamente vuoto e non si riempirà più di tanto a concerto avviato. Fa specie che il quartetto di Northampton (città di Thurston Moore, Kim Gordon e Jason Loewenstein, per chi non lo sapesse) si sia esibito due volte davanti alla folla del Primavera neanche una settimana fa, e oggi vada incontro alla desolazione di un club semideserto, ma rientra in fondo nella natura delle cose. Il gruppo di Sadie Dupuis non pare peraltro accusare il colpo quando si presenta, con buona puntualità, per regalare le proprie scariche alla sparuta platea torinese. Al suo ingresso, la prima sorpresa: manca all’appello uno dei tizi rosei, paffuti e imberbi presenti nella foto sul piccolo poster dell’evento, rimpiazzato per l’occasione da un altro giovane decisamente più scuro di carnagione, un moretto che scopriremo essere il nuovo chitarrista della compagine del Massachusetts, Devin McKnight, già con Melt Banana, Joe Lally e Trail Of Dead. Nemmeno a dirlo, l’impatto di questo musicista (di formazione jazz) nell’economia sonora degli Speedy Ortiz si rivelerà cruciale, allargando esponenzialmente i margini concessi alla fantasia come alle derive rumoriste e orientando in maniera assai positiva il nostro giudizio sul (tiratissimo) show propostoci. Che si dimostra sì divertente e leggero, come da premesse, ma anche energico ben oltre le previsioni, merito di una sezione ritmica sufficientemente robusta.

speedyortiz_iiDetto del sorprendente Hendrix in sedicesimo e del muro innalzato dalle maestranze con basso e batteria, resta da raccontare della prova della Dupuis, volto e anima degli Speedy Ortiz in linea con tutti i preventivi della vigilia. La ragazza fa la sua figura, incisiva con la chitarra ancor più che nelle parti cantate, di pura sostanza. Spigliata, ironica e spigolosa, ma senza adagiarsi al trito cliché della frontwoman arrabbiata: difficile attribuirle un’età, in quel vestitino adolescenziale, canotta a righine e gonna cortissima, eppure innegabile la pur sgusciante idea di carisma che le balugina attorno come un’aura sottile, anche dietro le pose più timide di un repertorio alquanto ridotto (che spazia dal tono slacker di “Tiger Tank” agli scampoli di dolcezza di “Casper” o “No Below”).
Si è scritto a sufficienza dei debiti enormi che questa piccola formazione indie-rock paga giocoforza  nei confronti dei Pavement degli anni d’oro (“Taylor Swift”) e di tanto post-hardcore opportunamente edulcorato (“Plough”) ma, almeno sul palco, la portata di queste implicazioni derivative non la si è colta fino in fondo come un fattore a handicap. Avere di recente suonato a rimorchio di Stephen Malkmus e Breeders ha evidentemente pagato, in termini di emancipazione dai modelli piuttosto che di definitivo annullamento in essi. Meglio dal vivo che su disco, insomma, anche se del disco in questione non ci viene presentata che la miseria di quattro brani, tutti nelle battute iniziali.

speedyortiz_iiiPer il resto gli Speedy Ortiz badano a intrattenere gli astanti pescando a piene mani dalle loro uscite più marginali, Ep e B-side, che si rivelano in diverse occasioni assai più interessanti degli episodi per così dire titolari. Nient’affatto male, ad esempio, i tre estratti dal mini “Sports” piazzati in coda (con tanto di unico encore, l’ottima “Indoor Soccer”). Se si fanno apprezzare i titoli recuperati dalle uscite-antipasto di “Major Arcana”, non sfigurano certo i due ripescaggi dalla più recente fatica, l’Ep “Real Hair”, di fatto una succosa anticipazione di quanto il futuro prossimo degli statunitensi dovrebbe riservarci: canzoni arruffate e nervose con qualche barlume di grazia, imprevedibili per quanto possibile e scritte con meno approssimazione “un tanto al chilo” ma più personalità. Il livello di aggressività sale gradualmente, i musicisti mostrano i muscoli senza mai coprirsi di ridicolo e, a giochi fatti, riescono a promuovere un surrogato rock alternativo molto meno banale di quanto saremmo stati indotti a immaginare. E poi c’è Sadie. Un peperino simpatico, graziosa anche se non bella. Scherza col pubblico, regala un paio di giochi di parole carini e non esita a sbandierare una passione genuina e infantile per il nostro paese che, ne siamo certi, non ha nulla di ruffiano. Altre impressioni da registrare, al di là del discreto baccano vissuto con divertita partecipazione da parte nostra e degli altri presenti, non ce ne sono. Il solo fatto che lo scetticismo di chi scrive sia uscito ridimensionato da questa “prima volta” vis-à-vis con gli Speedy Ortiz dovrebbe comunque deporre a loro favore.

In attesa di ulteriori conferme, li teniamo da parte come un nome buono – niente di più, niente di meno – per tempi di magra come questi.

Setlist
  1. Tiger Tank
  2. Casper (1995)
  3. Taylor Swift
  4. No Below
  5. Plough
  6. Doomsday
  7. Hexxy
  8. Ka-Prow!
  9. Bigger Party
  10. American Horror
  11. Everything’s Bigger
  12. Basketball
  13. Silver Spring
  14. Indoor Soccer
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