06/03/2015

Ariel Pink

Tunnel, Milano


Su quale avrebbe potuto essere il mood della prima serata di warm up del decimo Elita Design Week Festival era impossibile avere dubbi fin dall’inizio: varcando la soglia d’ingresso, infatti, non era solo un timbro sulla mano ad accogliere ogni spettatore, ma anche un boa di piume fuxia.
Protagonista dell’evento, infatti, era uno dei personaggi meno afferrabili e decifrabili degli ultimi anni, quel Marcus Rosenberg in arte Ariel Pink da cui non si sa mai esattamente cosa aspettarsi.

Sono le 21, un orario decisamente insolito per una nottata di live di questo genere, quando Larry Gus, il primo dei 5 nomi in cartellone, sale on stage. Il musicista greco, da solo sul palco, non nasconde il debito che ha nei confronti di mostri sacri come Caribou, ma i suoi 45 minuti di set si dimostrano decisamente di ottimo livello. Sample, loop, voci, urla, percussioni su cui Panagiotis Melidis si dimena forsennatamente, creando un effetto ipnotico e irresistibile sul pubblico.

Passa poco più di un quarto d’ora prima che inizi il vero freak show della serata. A sfilare sul palco, uno per uno, sono i sei componenti della band che accompagna, capitanati dal batterista Don Bolles, con indosso solo un bikini turchese con cappello e stivali texani — outfit che sarà immediatamente controbilanciato dall’importante tuta a panta-palazzo di panno turchese del bassista Tom Koh. L’impressione, guardando i sei musicisti sul piccolo palco del Tunnel, è quella di avere davanti delle persone a cui sia stato dato a ognuno individualmente un appuntamento al buio, con la sola indicazione di dover suonare, ma senza sapere con chi. Le interazioni sono ridotte al minimo, l’accordatura pre-concerto è accompagnata da un incrocio di sguardi interrogativi. È solo l’arrivo del frontman californiano a scaldare l’atmosfera.
Insaccato in una sottile tutina bianca della Nasa, gli immancabili zatteroni viola borchiati e una mollettina con un fiocchetto arancione tra i capelli biondi, Ariel Pink è la dimostrazione che le apparenze ingannano. Nonostante lo stile eccessivo e appariscente, la personalità del cantante è tutt’altro che istrionica: le spalle curve, la richiesta di spegnere la luce puntata su di lui, le poche parole rivolte al pubblico oltre che una grande attenzione per la musica rivelano una massiccia dose di disagio.

Ma per potersi permettere una tale distanza è necessario che la performance sia ineccepibile e, purtroppo, non è stato questo il caso.
Certo, riprodurre la complessa stratificazione sonora messa insieme da Rosenberg nei suoi dischi non è semplice, ma il risultato ottenuto live è ben lontano da quello aspettato, almeno questa volta.
Suoni impastati, livelli sballati, voci assenti: dal vivo “pom pom” – che praticamente monopolizza il concerto –  e i pochi brani scelti dai suoi predecessori si perdono in una massa indistinta di rumore. Il volume troppo alto del basso arriva a coprire persino rullante e doppia cassa, cosa che, nell’ambiente tutt’altro che ampio del Tunnel, crea una barriera che impedisce di sentire quasi tutto quello che fanno gli altri 5 musicisti sul palco. Peccato, perché la parte strumentale di questo live sarebbe stata di grandissima qualità – cosa che non si può, invece, affermare della voce principale, quasi totalmente assente, non si sa se esclusivamente per un errore tecnico o anche per un grande limite performativo. Sul palco tutto è sopra le righe, tranne l’attore principale, quello da cui ci si sarebbe aspettati un grande show, e che invece sembra del tutto sovrastato dagli altri componenti della band.

Bisogna arrivare all’encore di “Bright Lit Blue Sky”, richiesta dal pubblico, non prevista e quasi improvvisata, per trovare l’energia che durante tutto il live è mancata.
Un'occasione sprecata per Ariel Pink, che ancora non riesce a trovare la giusta dimensione dal vivo per il suo sound.