Scalzo, al centro del palco. Altissimo, statuario, la giacca scura strabordante e fuori misura. Sgrana gli enormi occhi neri che risaltano dal volto duro e lucido. Un alieno esotico, smagrito, capitato lì per caso. “Come sono arrivato fin qui?”, sembra ancora chiedersi mentre fissa una folla accorsa solo per lui, forse pensando a chi era fino a non troppi mesi fa.
Il Teatro Concordia di San Benedetto del Tronto è tutto esaurito da almeno una settimana, in occasione della seconda serata del Festival dedicato a Leo Ferré, ormai giunto alla ventesima edizione. La serata è un successo, ma non è difficile pensare che la causa di tanto entusiasmo sia da ricondurre a quel marziano di cui sopra, tra l’altro un dichiarato ammiratore dell’artista monegasco che dona il suo nome alla convention.
Lui, Benjamin Clementine, di diritto tra gli artisti dell’anno dopo il folgorante esordio “At Least For Now”. Stasera suona gratis, era prevedibile il dover fare a spallate per entrare.
E’ così che, dopo l’esibizione dei due cantautori Alex Bandini e Carmine Torchia, Benjamin entra in sala e, con l’ormai proverbiale discrezione, inizia a far cantare il suo pianoforte, ancor prima del timbro potente della sua voce. Parte un lungo racconto fatto di speranze deluse, di prove da superare, introspezione e amicizie tradite. Un racconto che colpisce inesorabile e fa sempre male, colpendo nel vivo senza fare baccano o spettacolarizzare, lanciando un ago nel punto nevralgico di ciascuno dei presenti.
Qui vediamo i numeri del fuoriclasse: quella capacità innata - quindi non figlia di un mestiere ancora acerbo - di calamitare il pubblico, paralizzandolo, mettendolo in soggezione. Nessuno che osi fiatare durante l’ipnosi dei suoi volteggi piano e voce.
Solo gli immancabili e fragorosi applausi alla fine di ogni brano riescono a stemperare la tensione, ma è solo una boccata d’aria prima di una nuova immersione.
Si potrebbe parlare quindi di come sembri innaturale il saliscendi continuo della voce di questo placido e timido inglese, esplosiva nel ritornello di “London”, grave e languida nella ballata “The People And I”. O magari di come “Adios” diventi ogni volta un nuovo brano: al di là del supporto del violoncello della solita ottima Barbara Leliepvre, l’inconfondibile giro di piano viene tirato al limite delle possibilità delle enormi mani di Clementine.
Eppure, sembra non versare una goccia di sudore mentre si poggia incurvato sullo strumento, in una postura genuinamente scomposta, quasi a mimare l’andatura sincopata di “Nemesis”.
Nella serata dedicata a Ferré non poteva mancare un omaggio all’artista, con “Avec Les Temps”, abbondantemente lodato dalle parole introduttive di Ben. Complimenti che hanno coinvolto anche “un eccellente pubblico”, piuttosto variegato pur con un’età media curiosamente alta. Benjamin diventa più loquace del solito, si dichiara grato del calore educato dei presenti e affascinato della nuova regione italiana in cui si trova a suonare. Il gioiello che dona per riconoscenza ai presenti viene quindi accolto con entusiasmo, non appena le prime note di “River Man” del compianto Nick Drake si fanno riconoscibili.
E’ stata quindi una buona serata? Basti considerare il successivo, inaspettato, bagno di folla a cui si è prestato l’artista, circondato da una folla di ammiratori a caccia di foto e autografi.
Dopo averli salutati tutti, l’esclamazione del suo manager lascia pochi dubbi: “Incredibile, non lo aveva mai fatto!”.
Scatti su gentile concessione di Renato Santiloni