12/11/2015

Deerhunter + Atlas Sound

Circolo Magnolia, Segrate (Mi)


Devo ammetterlo, ho imparato a diffidare di Bradford Cox. Non certo del suo debordante talento, già ampiamente dimostrato negli anni con i Deerhunter e nel suo progetto Atlas Sound, quanto piuttosto per certi suoi memorabili colpi di testa sul palco. Vi sarà capitato di leggere di quella volta in cui Cox e la sua band suonarono “My Sharona” per oltre un’ora (!!), oppure dell’episodio della pianta e delle lezioni di tastiera a una fan scelta a caso fra il pubblico. Insomma, l’abbiamo capito: stiamo parlando di un tipetto piuttosto imprevedibile.
Tanto per restare in tema, chi era presente al Magnolia nell’ultima apparizione italiana dei Deerhunter è stato testimone di un concerto bello ma certamente non memorabile, con il frontman di Atlanta poco lucido e decisamente votato al cazzeggio. Molti dei convenuti (compreso il sottoscritto) avranno pensato almeno una volta una cosa tipo: “Ok Bradford, io ti voglio bene. Ora però smettila di dire stronzate e mettiti a suonare!”.

Due anni e un album dopo, la location è sempre la stessa ma lo stato dell’arte sembra molto diverso. Cox sale sul palco in perfetto orario davanti a un pubblico piuttosto sparuto e apre le porte del suo personalissimo laboratorio sonoro che risponde al nome di Atlas Sound. E quindi largo alla sperimentazione, in una setlist di mezz'ora che (un po’ a malincuore) non lascia spazio a brani conosciuti. La chitarra si veste di effetti e distorsioni, la voce androgina di Bradford accompagna le ritmiche ribollenti di psichedelia dettate dal synth, il tutto avvolto da una sottile nebbia lisergica.
L’attitudine trasognata dei frammenti più psych-pop di “Logos” e “Parallax” lascia il passo a tappeti sonori digitali e claustrofobici, sempre più vicini alle allucinazioni sintetiche dell’ultimo Panda Bear. Che sia un cambio di rotta dopo le tonalità liquide degli ultimi anni? Intanto il pubblico si fa più numeroso e segue in silenzio e a tratti a occhi chiusi, ammirando il modo in cui Cox manipola il suono per creare una materia nuova che rifugge definizioni e confini, che va “vissuta” prima ancora che capita e ascoltata. Se è davvero questo il nuovo corso di Atlas Sound, non ci è ancora dato sapere.

Neanche il tempo di riaprire gli occhi ed ecco il turno dei Deerhunter al gran completo. E fin da subito si percepisce che stiamo per assistere a un grande concerto. L’attacco di “Desire Lines” viene accolto da un boato del pubblico, con la voce timida di Lockett Pundt che fatica a contenere l’irruenza di uno dei pezzi migliori di "Halcyon Digest". Cox riprende possesso del microfono in “Breaker”, la prima gemma del nuovo lavoro “Fading Frontiers”, che dal vivo suona meno retrò della versione su disco ma che resta sempre un piccolo capolavoro di cristallina semplicità.
E proprio l’ultimo album “Fading Frontiers” è ovviamente oggetto di attenzioni particolari nella scaletta del concerto: da “Duplex Planet” alla sognante “Take Care” passando dalla suggestiva “Living My Life” (introdotta e interpretata in chiave decisamente sunshine-pop), la serata si trasforma presto nella celebrazione del suono caratteristico dei Deerhunter, in bilico fra sottili melodie e caos ordinato. Le (poche) imperfezioni vengono ampiamente compensate dalla bellezza dei muri sonori costruiti nelle lunghe e tortuose code strumentali, a metà fra garage e psichedelia. In questo senso, suona piuttosto strana la scelta di non comprendere nella setlist qualche pezzo di “Monomania”, che non avrebbe certamente sfigurato in mezzo a tutte queste derive noise.

Onnipresente, invece, “Nothing Ever Happened”, che prende forma in un monolite di quasi venti minuti, sorretto dallo stesso giro di basso e batteria mentre tutt’intorno crescono rigogliose le chitarre e i synth. Un pezzo d’altri tempi, un sogno a occhi aperti in mezzo al frastuono organizzato.
Particolarmente apprezzabile la morbida "Ad Astra" con Pundt sugli scudi, mentre i tuffi nel passato di “Rainwater Cassette Exchange”, la doppietta “Cover Me (Slowly)”-“Agoraphobia” e l’accenno di “Cryptograms” certificano la perfetta coesione di un collettivo in stato di grazia.
La serata si chiude con il wall of sound dell’aliena “Fluorescent Grey”, brano contenuto nell’omonimo Ep del 2007, e noi a fine concerto non possiamo che pensare a quanto i Deerhunter siano stati (e siano tuttora) ingiustamente sottovalutati. Una grande, grandissima band.