
Sembrano passati secoli da quando John Grant, sul palco dell'End of the Road del 2011, accompagnato solo da un pianista, timidamente tirava sciabolate di synth totalmente fuori controllo durante i pezzi migliori del suo "Queen Of Denmark". In effetti, da quella sera di fine estate, la vita e la carriera del cantautore del Colorado sono radicalmente cambiate: un nuovo paese in cui vivere, nuove sonorità con cui sperimentare, un disco di transizione e uno di conferma, ma anche la scoperta della sieropositività e le sue conseguenze. Quattro anni decisamente intensi per il musicista, ma da cui è riuscito comunque a trarre tutto il meglio per sé.
Quello che stasera è di scena al Fabrique di Milano è John Grant al suo massimo splendore. In perfetta forma fisica, sorridente e bellissimo, con una maglietta degli Swans e pantaloni neri, Grant appare perfettamente a suo agio on stage sia quando si rintana dietro la tastiera di un pianoforte, sia quando i beat della sua produzione più recente rendono impossibile non muovere il proprio corpo a tempo con la musica.
L'inizio è morbido, e, mentre una voce recita in italiano il passo della lettera di San Paolo ai Corinzi che apre l'ultimo album "Grey Tickles, Black Pressure", Grant è già seduto al pianoforte: senza clamore, lo si scopre solamente quando la sua voce baritonale intona le prime note della title track del suo ultimo lavoro, seguita da "Down Here" e "Geraldine": tre ballad, per scaldare l'ambiente ed entrare in perfetta sintonia con il pubblico, che non perde occasione per applaudire anche a metà dei brani.
Il suono è perfetto, chiaro e pulito anche quando i bassi di "Pale Green Ghosts", la title track del disco precedente, si fanno incessanti. Dopo, con "Snug Slacks", "You And Him", "Guess How I Know", finalmente, la parte elettronica e la forma cantautorale hanno trovato l'armonia e l'equilibrio che il musicista aveva iniziato a cercare da tempo, anche grazie all'estremo talento della backing band che lo accompagna.
L'apice della serata arriva paradossalmente con un'altra title track: quella "Queen Of Denmark" che ha regalato il titolo al disco d'esordio di Grant. Incazzata, tagliente, capace di far urlare all'unisono tutti i presenti in un modo talmente sentito e partecipe da lasciare sbigottito il cantante sul palco. Un'esplosione, che basterebbe da sola a dare senso all'intero concerto, ma che è solo un tassello dorato in una performance dalla qualità rara. È il momento dei "classici", con "I Wanna Go To Marz", "GMF" e "Disappointing" a chiudere la prima parte dello spettacolo.
L'encore regala un altro momento difficilmente dimenticabile: dopo "Voodoo Doll", John Grant si risiede al piano e intona, immerso in un silenzio irreale da parte degli spettatori, forse il suo brano più struggente: "Where Dreams Go To Die". Ad occhi chiusi, senza synth, chiude con due pezzi degli Czars, "Drug" e "Caramel", uno dei live più potenti e intensi dell'anno. Sicuramente la migliore esibizione di Grant a cui mi sia capitato di assistere dall'inizio della sua carriera.