24/05/2015

Micah P. Hinson

Terrazza Lombroso, Torino


Ci sono cose che proprio non mi riuscirà mai di capire, per quanto questo non rappresenti di per sé un problema di alcun tipo: mi piazzo lì comodo a contemplarle e scelgo di risparmiarmi l’affanno del doverne venire a capo a ogni costo. La ragione misteriosa per cui la strada che conduce alla felicità contempli talvolta deviazioni in regioni inospitali dell’anima, che per godere del sole più radioso occorra quasi immancabilmente farsi atterrire dalla più brutale delle grandinate, è un validissimo esempio di quel che intendo. Un altro, se possibile ancor più impermeabile ai miei inservibili strumenti di analista, è il culto quasi messianico di cui gode nel nostro paese – una sorta di esclusiva nostrana, curiosamente – un personaggio fuori da qualsivoglia schema come il texano Micah Paul Hinson, altrimenti condannato per questioni che diremmo ontologiche all’oblio delle nicchie più carbonare. Sia chiaro da subito, da questa inutile premessa tra il filosofico e lo scherzoso: io non ho nulla contro il cantautore di Abilene, artista che, anzi, seguo e apprezzo sin dai suoi primi passi, e del quale ho sempre amato la vena eccentrica e viscerale riconoscendovi una patente di genuinità non artefatta (merce rara in quel mondo). Semplicemente, non me ne capacito. Mi sfugge come proprio da noi una personalità aliena e fuori catalogo come la sua abbia potuto far breccia da subito presso un pubblico di appassionati tanto nutrito, mediamente colto, ad ampia rappresentanza femminile e con buona prevalenza di trenta-quarantenni, seppur con puntate insolite in altre categorie “faunistiche” ad ampliare opportunamente il campione di riferimento. Non è bello, no davvero. Il suo maledettismo si mostra ingenuo, magari, ma non certo convenzionale. Suoni catchy o paraculi, neanche a parlarne, e quelle canzoni poi sono spesso così crude, sgraziate, poco inclini ai belletti, da respingere di primo acchito i perditempo degli ascolti “una botta e via”.

220x270_i_03Eppure piace, eccome se piace. Ogni volta che mi è capitato a tiro si è sempre trattato di eventi sold-out, anche in venue sufficientemente spaziose come – nomen omen – lo Spazio 211 o, questa sera, l’ampia Terrazza Lombroso tra i palazzi molto alla moda del quartiere di San Salvario, per ritagliarci un posticino sulla quale ci tocca una lunga anticamera in coda (e con la garanzia dell’ingresso solo grazie all’accortezza di un acquisto avvenuto con un mese di anticipo). Ed eccola, dunque, l’anomala tribù di Micah nell’ennesimo happening cittadino, per una volta gratificata pure da un’ambientazione e un orario (le 18.30 di una domenica di tarda primavera, assolata ma con qualche nuvola infida) non ortodossi e dunque molto più gradevoli del consueto. Per conquistare la nostra mattonella in calce a un palchetto che si direbbe abborracciato alla meno peggio, ci tocca una gimcana da mimi contorsionisti tra i bivacchi di chi si è presentato all’appuntamento con ben altra puntualità rispetto a noi, e magari con qualche allegro marmocchio da lasciar pascolare a piacimento sulla copertura in erba sintetica del terrazzone.
Ci agevola nell’impresa la provvidenziale, generalizzata, alzata in piedi degli astanti, sollecitati in tal senso dalla visione del cantautore claudicante ma già avviato al centro della scena. Tempismo perfetto, insomma, e posizione alquanto confortevole che cessa di esserlo nell’attimo stesso in cui ci spendiamo nella considerazione, per la comparsa di una coppia di attempati fidanzati hipster visibilmente sbronzi, la cui natura molesta non può sfuggire a nessuno tra i presenti delle prime file: parlata alticcia e sguaiata, l’impellenza non richiesta di presentarsi come grandissimi fan dello statunitense ancor più che come rumorosi attaccabottone, nonché quella fisicità invadente che sembra quasi un balzello obbligato quando presenziamo a un concerto che vorremmo proprio goderci in santa pace. Ignorate le due dita di gin tonic maldestramente rovesciateci sui piedi dai suddetti, ci impegniamo a concentrarci solo ed esclusivamente sullo spettacolo che sta per iniziare, con un Hinson dall’aria autistica che ripone il bastone (suo supporto dai tempi del grave incidente stradale di cui è stato vittima in Spagna, quattro anni fa) e imbraccia la sua splendida e immacolata Bigsby Airline.

220x270_ii_02Il pretesto di questa nuova visita non è la consueta promozione di materiale fresco di pubblicazione bensì un anniversario, di quelli importanti che in un periodo come quello attuale sembrano tanto inflazionati. Un disco, il primo, il più avvincente, ha da poco festeggiato il suo decimo compleanno e Micah ha colto la palla al balzo per riproporlo live ai suoi seguaci europei e ribadirne tutta l’attualità rispetto a una serie di uscite più recenti ma decisamente meno a fuoco. “The Gospel Of Progress” era il ritratto dell’artista da giovane, il suo cuore sanguinante gettato nel secchio dell’immondizia dalla crudele Melissa, la vedova nera che annientò una delle band più originali e sottostimate dei tardi anni Novanta, i Tripping Daisy, e per un soffio non fece altrettanto con lo zoppicante songwriter ragazzino scaraventatosi per troppo amore nell’occhio del suo ciclone. Col senno di poi, ci sarebbe più di un motivo per ringraziarla, quella misteriosa femme fatale di cui la rete non conserva nemmeno un’istantanea in bassa risoluzione, e sì che si trattava di una modella di Vogue. Di ragioni per renderle omaggio ora che la sua spietata influenza è evaporata da tempo, anche tralasciando tutto il buono concretizzatosi in seguito, ce ne sarebbero almeno tredici, una per ogni stazione della formidabile via crucis emozionale di questa ardente opera prima. Che ritorna quindi con una celebrazione ad hoc, orchestrata tuttavia da una persona assai diversa rispetto all’artefice di quello strano miracolo. Non più il ventenne ruspante e all’arma bianca di allora, cagnaccio rognoso capace di slanci lirici o umorali pazzeschi, bensì una sorta di bislacca e umile figurina, un cantautore fanciullo che ci si presenta come accartocciato da un’astratta progeria espressiva: l’immutabile viso glabro di bimbo incastonato nella stramba sagoma cartonata di uno storyteller piegato dal peso degli anni: berretto à-la Woody Guthrie, salopette retrò e golfino cadente, per un’impressione, insieme, di goffaggine e sconfinata tenerezza.

220x270_iii_01L’avvio è di quelli che, per chiunque rientri nella categoria dei profani, non potrebbe che essere definito sconcertante. Nessuna introduzione parlata, nessuna decorazione di organi o carillon, solo la fragilità di quella linea stilizzata di chitarra, depauperata e incespicante, accompagnata dal doloroso e flebile latrare di un Hinson nudo, disarmato e disarmante. La magia e il pathos di “Close Your Eyes” sono rimpiazzati da una crudezza verista non meno toccante, per quanto chi non conosca il texano possa scambiare questo primo scorcio di esibizione per lo sgradevole siparietto di un ubriaco o di un poveraccio afflitto da chissà quale turba psichica.
Ma il trentaquattrenne di Abilene è proprio tutto fuorché un alcolizzato o un malato di mente, e non impiega molto a dimostrarlo alla sua platea trepidante. Rifiuta sdegnosamente la profferta di un drink ricevuta dagli stessi fastidiosi personaggi che avevano tormentato noi sventurati vicini solo cinque minuti prima, e solleva il cartone di succo di frutta all’arancia che ha portato con sé, a ribadire il concetto. E quando i già citati disturbatori iniziano a incalzarlo nella sua performance – ancora compassata e sofferta ogni oltre immaginazione – battendo le mani fuori tempo come a prestargli un insulso accompagnamento ritmico, il Nostro non si scompone ma con fermezza, senza spendersi in scenate inutili, predica in tutti i presenti la necessaria serenità d’animo, riservando alla chitarra o alle proprie atticciate scarpe da ginnastica quell’inconfondibile sguardo tra l’assente e lo strafottente. Chi temesse l’appiattirsi dell’esibizione su uno standard troppo dolente o rinunciatario può tirare un sospiro di sollievo quando con “The Possibilities” arriva la prima vera scossa della serata: inattesa, ecco un’interpretazione esacerbata da vampe elettriche schiumanti ma disciplinate, che regalano alla canzone una profondità assente nella ben più edulcorata versione di studio. Per il pubblico come per il cantante, sin qui impegnati in una specie di gara di timidezza, è il sussulto che serviva.

220x270_iv_02Se Micah, sempre stralunato e almeno in parte inafferrabile, scioglie la lingua, brucia nel suo inseparabile bocchino una sigaretta dietro l'altra e comincia a intrattenere con lunghi sermoni chi gli sta di fronte, la richiesta indirizzata poco prima a quel paio di mosconi pare essere caduta nel vuoto. C’è tra gli organizzatori chi prova a calmare un po’ gli animi, ma i ripetuti schiamazzi non aiutano ed escono anzi amplificati da ogni intervento distensivo speso in tal senso. E’ quantomeno spiazzante trovarsi ad ammirare chi solo un attimo prima si proclamava estimatore adorante dell’artista sul palco, mentre ora lo ricopre di epiteti irriguardosi burlandosi della natura gracile della sua prova come di qualcosa di cui vergognarsi; oltremodo antipatico, soprattutto, che a dare il peggio sia una figura femminile, tanto attenta alla cura del proprio corredo estetico (la forma come idolo indiscusso, vera malattia di questi tempi) quanto sciatta nella manifestazione di una condotta tanto puerile e volgare. L’allontanamento coatto e provvidenziale di questi isolati elementi di disturbo è un’ulteriore benedizione per lo show, visto che l’umore stesso del cantautore ne esce rinfrancato e la sua gustosa parlantina vale come giusto riconoscimento agli spettatori pazienti. “The Gospel Of Progress” ci viene presentato degnamente, tra retroscena su quell’improvvisato avvio di carriera, la fame della giovinezza, la disperata ricerca di riscatto e l’incontro con un pur parzialissimo successo, specie dalle parti di casa sua. Ma il Micah del decennale ci tiene a offrirsi come una persona finalmente normale e, a suo modo, abbastanza integrata. Scherza sulla gravidanza che ha gonfiato a dismisura l’adorata (e davvero cruciale) moglie Ashley, che dietro le quinte non riusciamo a scorgere ma sentiamo rispondere puntuale alle sue domande. Ride finalmente, con quella sua aria un po’ sbiellata ma mai posticcia, e la sua voce ritrova l’abisso e gli aromi inconfondibili del bluesman navigato.

220x270_v_01La delicatezza elettrica della Bigsby sulle note di “As You Can See” ci accarezza come un refolo di brezza serale disegnando sulle nostre braccia scoperte una pelle d’oca quanto mai opportuna. Pur nella loro veste frugale e zampettante, anche le altre canzoni ritrovano a grandi linee la loro ortodossia, il loro carattere, quella malia che una “The Nothing” porta marchiata a fuoco. Tuttavia non manca una sorpresa di quelle davvero memorabili. Hinson si lamenta dei tormenti patiti da un brano come “Patience”, indiscussa acme dell’album, odiato per il fatto di essere stato richiesto con puntualità assassina ogni stramaledetta serata, in un passato e un presente già di tutto rispetto, a scapito magari di altri titoli molto più amati da lui come la meravigliosa “The Day Texas Sank To The Bottom Of The Sea”. Potrebbe sembrare lo sfogo di un padre un po’ esaurito da quella figlia così osannata e ingestibile, un’invettiva scherzosa e niente più (sulla falsariga di quella recentemente offerta al pubblico romano della Chiesa Evangelica, ritenuta luogo poco idoneo a ospitare il pezzo), ma che il Nostro faccia sul serio appare chiaro quando, al suo posto nella collana, quella perla non compare affatto, avvicendata dalla successiva “You Lost Sight On Me”. Una scelta, questa dell’omissione, che abbiamo immaginato mille volte da parte di quell’artista o quella band ossessionati dal proprio ingombrante brano feticcio; ma il texano è il primo ad avere il coraggio e la sfrontatezza di portarla davvero fino in fondo, con un effetto che è tanto più clamoroso se si considera che lo sfregio si manifesta nel cuore di una rilettura, da premesse e convenzione, intesa da tutti come integrale. Tanto di cappello a lui che, si fa perdonare con gli interessi proprio con una intensissima versione del titolo che chiudeva, nel segno di un’inarrivabile poesia, l’album qui omaggiato.

220x270_vi_01Gratificato dalla piena di applausi, l’occhialuto statunitense limita al minimo indispensabile l’intervallo piazzato prima dei bis e fa presto ritorno in scena per qualche appendice che immaginiamo gustosa. Non ci va male affatto: anche se la scaletta non asseconda le nostre preferenze, viene premiata la vena obliqua e imprevedibile del cantante, a partire da una “God Is Good” suonata (per sua stessa ammissione) “più in tono con quella che avrebbe dovuto essere la sua natura”, più alla maniera di “The Baby & The Satellite” che non del recente “Micah P. Hinson & The Nothing”. Se si apprezza in particolare un altro episodio dell’ultima fatica, una “How Are You Just A Dream?” che si aggiudica in agilità l’etichetta di “incendiaria”, la vera sorpresa è strategicamente posizionata in coda alla scaletta, e svela il retroterra più intimo e tutto sommato inevitabile dell’artista, al netto di tutte le implicazioni (violent)country, folk e blues nel suo bagaglio – per così dire – classicista. Si tratta di un brano, “Something In The Way”, che riconosciamo in mezzo secondo e non fatichiamo a identificare come “nostro”, ben più di tante altre cover che il texano ha proposto negli anni anche in lavori ad hoc come “All Dressed Up And Smelling Of Strangers”. Lo dice l’anagrafe, anno più, anno meno: i Nirvana sono un po’ le nostre origini proprio come le sue; di quando era ancora solo un ragazzetto con vezzi da ribelle, ignaro dell’inferno che gli si stava per parare innanzi. Magari squinternato ma sempre genuino, il futuro papà Micah Paul Hinson è sopravvissuto ai suoi fantasmi e li ha imprigionati con profitto nelle sue canzoni, specie in quelle indimenticabili di “The Gospel Of Progress”, riascoltate con innegabile piacere una domenica sera di tarda primavera tra i tetti di San Salvario.
Canzoni che, pur slabbrate o smozzicate o tormentate più del lecito, sanguinano ancora a dovere. Forse il segreto di questo culto sta tutto lì: nel saper far riecheggiare la vitalità della propria musica come fosse ancora il primo giorno.