
Luglio suona bene, ma anche giugno non scherza, all’Auditorium, se la scena se la prendono i Pet Shop Boys, duo inglese mai abbastanza apprezzato per l’intelligenza con cui ha saputo plasmare in accattivanti capsule di pop elettronico la sua complessa visione della società, unita a un’estetica postmoderna. Tempo di intravedere i soliti peones (tra cui l’immancabile edonista delle notti romane Roberto D’Agostino) e di salutare il sempreverde Carlo Massarini, che mai ci saremmo immaginati di incontrare a questo party di gommosità sintetiche in technicolor, e le luci si spengono.
L’atmosfera è elettrica, forse per la musica techno che ha preceduto lo show, forse per la curiosità per le scenografie futuriste che già si intravedono dietro le quinte e che, nel prologo, mostrano l’omaggio – in fondo, dovuto – a quei Kraftwerk che in questa stessa cornice vedemmo l’estate scorsa, in un mirabolante show in 3D. E i punti di contatto con quella spettacolare performance non mancheranno, nell’arco di una serata in cui luci, scenografie, laser e canzoni si amalgameranno alla perfezione, per l’entusiasmo dei tremila presenti.
È subito ovazione all’ingresso dei due, in improbabili giubbotti neri piumati. La doppietta iniziale “Axis”- “One More Chance” crea l’atmosfera, ma l’affondo è una “Opportunities (Let's Make Lots Of Money)” sparata a palla nella calda notte romana. Impossibile resistere a quel ritornello geniale e irriverente: “I've got the brains, you've got the looks/ Let's make lots of money”. L’intera parabola yuppie o, se si vuole, lo stesso showbiz, fatti a pezzi in 16 parole. E così i timidi tentativi della security di fermare i fan sotto il palco vanno a farsi friggere definitivamente: un’orda di carbonari 80’s e di nuovi adepti si assiepa ai piedi di Neil Tennant e Chris Lowe. E l’austera Cavea si trasforma subito in una discoteca a cielo aperto, tra laser, fumi, luci stroboscopiche e intuizioni sceniche che richiamano – come si accennava – quelle meravigliosamente retro-futuriste dei simbionti di Düsseldorf. Certo, i Pet Shop Boys ci mettono del loro. L’ironia, anzitutto, che li spinge a mettere in mostra tutto il loro impareggiabile guardaroba, con continui cambi di abiti – possibilmente plasticati e luccicanti - e cappelli (non potevano mancare le bombette e i giganteschi coni bianco-arancione, indossati anche da alcuni fan), o a presentarsi legati a due grossi materassi in verticale, mentre sulle lenzuola scorrono le immagini di corpi in frenetico movimento, per l’ilarità generale.
Tennant è in forma, efficace nel tenere la scena e maneggiare vocalmente ritornelli tanto immediati quanto insidiosi. Per stabilire il feeling con il pubblico basta una frase: “Ciao Roma, è tanto che mancavamo, ma è bellissimo essere qui”. Sorride e non perde il suo aplomb, mentre stravaganti ballerini muniti di corna da minotauro gli ballano attorno, o quando, col suo registro colto da intellettuale British, snocciola le sue storie di alienazione metropolitana dentro un casco di lustrini o un copricapo da toro meccanico. È lui il dj della serata, si mette persino a fare il direttore d’orchestra con il pubblico, in visibilio sulle vibrazioni di “Suburbia”, che fa tanto 1986, d’accordo, ma non può strappare una lacrimuccia pure a chi è venuto dopo. Di sicuro ci riesce la successiva “I'm Not Scared”, il singolo stritola-classifiche gentilmente regalato a Sua Biondità Patsy Kensit, frontgirl degli Eight Wonder e regina di tutte le meteore Ottanta: una riappropriazione doverosa, per una delle melodie più limpide del duo inglese.
Dopo l’ottovolante neo-wave di “Fluorescent” (dall'ultimo “Electric”, 2013), ecco quei battiti che tutti aspettavano, quelli sui quali sboccia “West End Girls”, sempiterna istantanea in spoken word della Londra anni 80, terra promessa di ogni new european, per dirla con gli Ultravox, ma anche crogiuolo di contrasti e contraddizioni. Il pubblico non si trattiene più, sotto il palco ormai è un rave-party, in cui si specchia una generazione intera. Tennant lo sa, e la fa cantare, mentre Lowe è praticamente un cyborg, avvinghiato alle sue macchine roboanti.
Non mancano però gli episodi più recenti, improntati a un'interessante contaminazione tra il pop e i nuovi linguaggi del dancefloor, come la scintillante “Leaving”, che impreziosiva un album tutto sommato ostico come “Elysium” (2012), o, scavando un po’ più indietro, la house colma di virtuosismi ritmici di “I Get Excited” (da “Alternative”, la doppia raccolta delle B-side incise tra il 1985 e il 1995).
L’impenitente gigolò di “Rent”, con i suoi ammiccamenti erotici, prepara il terreno alla nuova apoteosi, che si consuma sulle note trionfali di “It’s A Sin”, altro capolavoro 80’s, con la sua satira graffiante del bigottismo thatcheriano celata nella sontuosa confezione elettro-sinfonica. Ma funziona anche quella “Domino Dancing” che non capisci mai se sia solo una sublime tamarrata o qualcosa di molto più sottile, mentre “Always On My Mind” (cover di Brenda Lee) chiude le danze in clima romantico, sotto una pioggia di coriandoli arancioni.
Saluti, acclamazioni, bis. Due, per l’esattezza. Uno non poteva mancare: “Go West”, la cover dei Village People, sempre accattivante nel suo miscuglio perverso di melodia da opera, cori da stadio e sostrato elettronico. Ma sarà la trance-hardcore di “Vocal” a mettere il sigillo finale sull’unica tappa italiana dell'Electric World Tour (già 108 tappe in 47 paesi). Uno show perfetto, che ha fatto felici i fan con il ripescaggio di tutte le hit storiche, senza rinunciare alle nuove sperimentazioni di un gruppo che da 32 anni continua a correre con il naso in avanti. Verso un futuro (im)possibile.