30/03/2015

Steven Wilson

Teatro Dal Verme, Milano


Il pubblico a un concerto di Steven Wilson è di un tipo abbastanza specifico. Potremmo definirli “nostalgici al quadrato”: per un immaginario e delle sonorità che hanno come minimo trent'anni, e i cui rappresentanti verranno più volte citati durante la serata (nel recitato di “Perfect Life” e da Wilson stesso, nume tutelare di tutti i nostalgici); ma anche per una band che attualmente non c'è più, il cui nome sembra aleggiare per tutto il tempo ma che non ottiene menzione – solo le t-shirt dai tour di qualche anno fa lo esplicitano. Per questo c'è un senso di complicità nell'accoglienza riservata al leader storico dei Porcupine Tree, che alle soglie dei 50 anni lavora sui propri ricordi con l'entusiasmo di un ragazzino, i capelli fluenti davanti agli occhi(ali), i piedi scalzi sul palco. Il suo saluto al pubblico del Teatro Dal Verme di Milano è ugualmente caloroso e dettato da una sincera gioia per il ritorno in terra italiana.

L'avventura da autore solista di Wilson si presenta sempre più come un corpus multimediale in continua espansione, che affianca ogni nuova uscita con un supporto video che aggiunge alla narrazione musicale il potere delle immagini reali e animate. Il concept di “Hand. Cannot. Erase.” non fa eccezione, e su un grande schermo digitale compaiono stralci di una periferia londinese dove vive la protagonista, le sembianze di una Marina Abramovic trentenne, tatuaggi e sigarette, un'esistenza del tutto normale per la quale è facile provare empatia. Interviste e comunicati ci riveleranno che la storia ivi narrata è ispirata a un fatto di cronaca secondo il quale, nel 2003, la morte solitaria della giovane Joyce Vincent nel suo monolocale a Wood Green è rimasta ignota per oltre due anni. “I can feel you more than you really know”, canta il frontman dopo un intro mozzafiato, racchiudendo in una sola frase il sentimento dominante di questo nuovo album “biografico” – perlomeno se paragonato al favolistico “The Raven That Refused To Sing” – un esercizio di immedesimazione al femminile che ci conduce in un intreccio di ricordi sfocati, allegorie familiari (“Perfect Life”) e vorticose digressioni astratte (“Home Invasion/Regret”). Impossibile non citare lo stop-motion burtoniano di “Routine”, brano già in origine strappacuore che arriva così a toccare un acme emozionale irripetibile.

La formazione che in questo momento storico affianca Wilson è in grado di assecondare alla perfezione la sua “retromania” rampante, conferendo al suo sound anche un marcato tocco neo-progressive, che specialmente nelle lunghe sequenze strumentali sembra guardare da vicino ai migliori Dream Theater – quelli di “Scenes From A Memory”, che anche sotto il profilo tematico lascia spazio a interessanti coincidenze. La presentazione integrale del nuovo album è inframmezzata da tre episodi del passato: dai primi due album solisti le feroci “Index” e “Harmony Korine”, mentre dagli omessi Porcupine la classica ballata “Lazarus”, che elabora da un'altra prospettiva il dolore di una perdita.
C'è attesa per gli encore dedicati a “The Raven...”, qui rappresentato dall'inebriante melodia arpeggiata di “The Watchmaker” (un po' la sua “Musical Box”...) e dal finale della title track, che nella sua povera animazione rimanda alla tradizione russa e alla lanterna magica, ma attraverso gli occhi di un artista che con ogni evidenza, ancor prima delle storie, vuole raccontare emozioni universali e durature. “Sing to me, raven/ I've missed you so much”. Applausi a non finire per l'esibizione ineccepibile ma forse, ancor di più, in omaggio a un lavoro trentennale che ancora oggi sa sorprendere e commuovere.

Photo credits: Scott Kahn