
Nipotino di Syd
Jacco Gardner è uno degli artisti più noti della nuova scena pop psichedelica. Nel corso di due dischi ha saputo maneggiare tanto le sonorità dell'ondata psych-beat che fa capo a Syd Barrett quanto quelle del folk più delicato in stile Nick Drake, lasciando intendere di avere anche un certo senso per il passaggio radiofonico.
In occasione del suo ritorno in Italia, la scelta delle location da parte del promoter è caduta su tre club di dimensioni medio-piccole, il primo dei quali è lo Spazio211 di Torino.
Jacco Gardner è uno degli artisti più noti della nuova scena pop psichedelica. Nel corso di due dischi ha saputo maneggiare tanto le sonorità dell'ondata psych-beat che fa capo a Syd Barrett quanto quelle del folk più delicato in stile Nick Drake, lasciando intendere di avere anche un certo senso per il passaggio radiofonico.
In occasione del suo ritorno in Italia, la scelta delle location da parte del promoter è caduta su tre club di dimensioni medio-piccole, il primo dei quali è lo Spazio211 di Torino.
L'opening della serata è affidato ai The Yellow Traffic Light, che giocano in casa, e al loro efficace ricamo di tappeti shoegaze su strutture psichedeliche. Una formula interessante (ben rappresentata dal loro nuovo Ep "To Fade At Dusk"), apprezzata dal pubblico in sala e dagli stessi membri della band di Gardner, ascoltatori attenti nelle ultime file.
Il giovane olandese sale sul palco poco dopo le 23 piazzando in apertura subito due pezzi importanti come "Hypnophobia" (dall'omonimo disco uscito lo scorso anno) e "Clear The Air" (opening track di "Cabinet Of Curiosities", del 2013), particolarmente efficaci nel restituire già l'insieme variopinto di colori di cui si compone la tavolozza di Jacco.
Si prosegue alternando in scaletta i momenti migliori dell'ultimo disco ("Face To Face", "Brightly", "Another You") e i fondamentali del precedente ("Puppets Dangling"), tutti eseguiti con variazioni decisamente minime rispetto alle versioni originali, ma in grado di mettere in luce una band piuttosto rodata, nella quale la presenza minuta e gentile di Gardner si muove con sicurezza.
Si prosegue alternando in scaletta i momenti migliori dell'ultimo disco ("Face To Face", "Brightly", "Another You") e i fondamentali del precedente ("Puppets Dangling"), tutti eseguiti con variazioni decisamente minime rispetto alle versioni originali, ma in grado di mettere in luce una band piuttosto rodata, nella quale la presenza minuta e gentile di Gardner si muove con sicurezza.

Dopo un'ottima "Outside Forever", inizia la parte finale dello spettacolo, la cui durata complessiva risulterà alla fine essere di poco superiore all'ora, lasciando basito più di qualcuno fra il pubblico per l'assenza di un qualsivoglia bis.
Rimane il tempo per gustare una giustamente conclusiva "Find Yourself" e meditare su una serata che poteva essere certo più corposa, ma che tutto sommato ha rispettato quanto ci si poteva aspettare artisticamente dal buon Jacco e dalla sua proposta live, che siamo certi avrà ancora buoni margini di crescita nel tempo.
***
Il giovane favoloso
Ventisette anni, ma gliene daresti tranquillamente diciassette. Corporatura minuta, viso da ragazzina nordica, sguardo alieno e sfuggente. Jacco Gardner è un mostro vero, nel senso di prodigio, perché non ci si capacita di come un giovane artista olandese di oggi abbia saputo tirare fuori dal nulla musica che sembra ancorata a un passato mitologico e che pure non si potrebbe immaginare più credibile di così, tale è la perfezione degli arrangiamenti, di un decorativismo che è filologicamente corretto in maniera quasi imbarazzante.
Il sommario analista di faccende musicali potrebbe limitarsi a liquidare la pratica parlando di un abile manipolatore della forma, un imitatore di classe superiore che ha mandato a memoria un’intera decade di fantasmagorie psichedeliche, dalla Canterbury aurea ai fantasmi di Syd Barrett, e che vive di eterne repliche e riletture apponendo in calce la propria firma. Non gli si renderebbe un bel servizio, però. Jacco è prima di tutto un cantautore, un creativo di scintillante talento, e non ci sono banali vezzi necrofili nella sua ricerca: la sua penna si tufferà pure senza requie nel calamaio del vintage, con tutte le implicazioni non sempre rosee che questo slancio derivativo inevitabilmente comporta, ma non c’è olezzo di muffa o di stantio nelle sue canzoni, feste invero appassionanti in una fase in cui il riciclo selvaggio ha nobilitato con il sigillo dell’attualità istanze dalla portata artistica quantomeno dubbia.
Fin troppo facile, allora, etichettare come imperdibile questo suo ritorno in Italia per presentare il favoloso sophomore “Hypnophobia”, agile superamento artistico del già pregevole “Cabinet Of Curiosities” e titolo che di per sé suona a dir poco ironico. Più che alla paura del sonno, le nuove canzoni fanno pensare infatti alla sua più ardita e rigogliosa celebrazione, così pervase di oniriche evocazioni e di un’immaginazione esercitata quasi con prepotenza a tutto campo.
E’ giustappunto una gentile spirale che sa di ipnosi ad accoglierci dopo la furibonda sarabanda tra indie-rock e jangle-pop degli opener di casa, i giovanissimi Yellow Traffic Lights (con due Fender promettenti, va detto): la title track ammansisce gli spiriti dei tanti accorsi nel locale di via Cigna, pur riuscendo affogata da un impasto sonoro in cui le ritmiche sono ancora troppo prevaricanti, fangose le tastiere, a discapito della voce, ancora frenata dalla timidezza, e della trama brillante di quei due pezzi da modernariato che sono le chitarre di Jacco (una piccola Guild lignea con pick-up magnetico Schaller sulla buca) e del compagno al suo fianco (splendida dodici corde Framus Hootenanny). L’inconveniente torna a farsi sentire anche nella più spumeggiante “Clear The Air”, con i suoi vaghi accenni spacey, ma va poi in archivio a parametri opportunamente bilanciati.
Chissà se l’estate tratteggiata con delicata meraviglia sunshine-pop in “Summer’s Game” è proprio la Summer of Love cui sembra inevitabile andare con la mente. Ce lo domandiamo mentre il suono arriva a imporsi finalmente nitido nelle nostre orecchie, e ci troviamo a refertare una fedeltà pressoché assoluta alle versioni di studio, nessuna sbavatura evidente rispetto ai canoni su nastro ma nemmeno quelle libere divagazioni che dal vivo pretendiamo come necessarie prove di vitalità.
Il problema, se un problema c’è, sta tutto qui. La giovane band che Jacco ha portato con sé dall’Olanda si esprime senza pecca alcuna attraverso un sound che più esatto di così non si potrebbe vagheggiare, nemmeno nel più favorevole dei sogni. Anche la scaletta, con la sua miscela ponderata di brani più o meno recenti, e un paio di b-side gustose per la gioia del completista (sugli scudi la fiabesca, davvero spiritata, “A House On The Moon”) rasenta la perfezione strategica. A fare difetto sono i brividi autentici, che esulino dall’eccellenza già nota degli originali (una per tutte, l’algida e altrimenti inattaccabile “Brightly”, memore a tratti della lezione di Simon & Garfunkel).
Che si cimenti con la sua acustica, con l’amato Korg o le maracas, Gardner non cambia mai espressione, inafferrabile oltretutto, e dà segno di trovarsi davanti a un pubblico solo quando spiccica i suoi ringraziamenti monocolori o un sorriso fugace in risposta agli applausi, quelli sì sempre più calorosi e convinti. Tutto molto bello, insomma, formalmente ineccepibile, ma anche invariabilmente freddino. Sembra un incantesimo e non verrà sciolto, purtroppo, che nelle battute conclusive. Il momento propizio è il canalone incendiato dai riverberi in fondo alle tortuosità kraut-rock della torrenziale “Before The Dawn”. Qualcosa effettivamente pare scattare, e se ne raccolgono i frutti nella successiva “Chameleon” e soprattutto in una “Find Yourself” che è davvero il singolone a orologeria e chiama all’ovazione.
Purtroppo, però, il sogno senza più remore o barriere si infrange tra i vapori dell’organo e il cristallo delle chitarre, proprio quando anche gli attori in scena sembravano averci preso gusto. Il gruppo si congeda sul più bello e la musica subito sparata a tutta dagli altoparlanti conferma, tra lo stupore generale, che quella “last song” annunciata (caso unico) da Jacco era proprio tale. Un’ora o poco più di concerto, spesa un po’ con la sordina a livello emozionale, ma anche una sontuosa lezione di storia degli stili di quasi cinque decadi musicali, privilegiando le derive acid-folk e psych-rock (con rare tentazioni progressive, ma non diciamolo troppo forte) al registro baroque-pop per cui il nome di Gardner è giustamente in auge da quattro anni ormai. Almeno da questo punto di vista, la prova live può dirsi brillantemente superata. Perché il ragazzo di Hoogeveen riesca a far breccia del tutto anche nei nostri cuori, oltre che nelle nostre orecchie, servirà forse quel passo in più sulla strada della piena maturità e di una capacità comunicativa all’altezza delle doti espressive. Anche quel giorno, ne siamo certi, saremo qui a battere le mani al giovane favoloso Jacco Gardner.
***
Il giovane favoloso

Il sommario analista di faccende musicali potrebbe limitarsi a liquidare la pratica parlando di un abile manipolatore della forma, un imitatore di classe superiore che ha mandato a memoria un’intera decade di fantasmagorie psichedeliche, dalla Canterbury aurea ai fantasmi di Syd Barrett, e che vive di eterne repliche e riletture apponendo in calce la propria firma. Non gli si renderebbe un bel servizio, però. Jacco è prima di tutto un cantautore, un creativo di scintillante talento, e non ci sono banali vezzi necrofili nella sua ricerca: la sua penna si tufferà pure senza requie nel calamaio del vintage, con tutte le implicazioni non sempre rosee che questo slancio derivativo inevitabilmente comporta, ma non c’è olezzo di muffa o di stantio nelle sue canzoni, feste invero appassionanti in una fase in cui il riciclo selvaggio ha nobilitato con il sigillo dell’attualità istanze dalla portata artistica quantomeno dubbia.

E’ giustappunto una gentile spirale che sa di ipnosi ad accoglierci dopo la furibonda sarabanda tra indie-rock e jangle-pop degli opener di casa, i giovanissimi Yellow Traffic Lights (con due Fender promettenti, va detto): la title track ammansisce gli spiriti dei tanti accorsi nel locale di via Cigna, pur riuscendo affogata da un impasto sonoro in cui le ritmiche sono ancora troppo prevaricanti, fangose le tastiere, a discapito della voce, ancora frenata dalla timidezza, e della trama brillante di quei due pezzi da modernariato che sono le chitarre di Jacco (una piccola Guild lignea con pick-up magnetico Schaller sulla buca) e del compagno al suo fianco (splendida dodici corde Framus Hootenanny). L’inconveniente torna a farsi sentire anche nella più spumeggiante “Clear The Air”, con i suoi vaghi accenni spacey, ma va poi in archivio a parametri opportunamente bilanciati.
Chissà se l’estate tratteggiata con delicata meraviglia sunshine-pop in “Summer’s Game” è proprio la Summer of Love cui sembra inevitabile andare con la mente. Ce lo domandiamo mentre il suono arriva a imporsi finalmente nitido nelle nostre orecchie, e ci troviamo a refertare una fedeltà pressoché assoluta alle versioni di studio, nessuna sbavatura evidente rispetto ai canoni su nastro ma nemmeno quelle libere divagazioni che dal vivo pretendiamo come necessarie prove di vitalità.

Che si cimenti con la sua acustica, con l’amato Korg o le maracas, Gardner non cambia mai espressione, inafferrabile oltretutto, e dà segno di trovarsi davanti a un pubblico solo quando spiccica i suoi ringraziamenti monocolori o un sorriso fugace in risposta agli applausi, quelli sì sempre più calorosi e convinti. Tutto molto bello, insomma, formalmente ineccepibile, ma anche invariabilmente freddino. Sembra un incantesimo e non verrà sciolto, purtroppo, che nelle battute conclusive. Il momento propizio è il canalone incendiato dai riverberi in fondo alle tortuosità kraut-rock della torrenziale “Before The Dawn”. Qualcosa effettivamente pare scattare, e se ne raccolgono i frutti nella successiva “Chameleon” e soprattutto in una “Find Yourself” che è davvero il singolone a orologeria e chiama all’ovazione.
