07/03/2016

Joe Jackson

Teatro Brancaccio, Roma


Il sorriso smagliante della spettatrice della fila davanti riassume l’approccio con cui il pubblico romano del Teatro Brancaccio ha atteso questo concerto. La gioia di ritrovare un vecchio amico, perso non si sa bene perché dai radar dell’informazione musicale degli ultimi anni (e dire che di dischi belli ne ha continuati a sfornare, a cominciare dall’ultimo “Fast Forward”). La gioia di gustare la musica per quello che deve essere: passione, preparazione, libertà creativa. Ma soprattutto: grandi canzoni, quelle che Joe Jackson scrive imperterrito da quasi un quarantennio.
E alle 21.20, eccolo là, l'allampanato David Ian, per gli amici Joe, in elegante abito verde, guadagnare il suo piano elettrico. Quasi non si aspettava l’ovazione. Si sente in dovere di dire qualcosa: “Questa sera non c’è opening act, lo faccio io da solo, ma poi mi raggiungerà la band”. Attacca “It’s Different For Girls”, parodia-capolavoro delle incomprensioni uomo/donna a cliché ribaltati (è lei a cercare il sesso facile, mentre lui, che sognava una storia d'amore, si vede recapitare la solita frase - "per le ragazze è diverso" - col significato opposto a quello comunemente inteso). E subito si conferma l’impressione lasciata da “Fast Forward”: il vero lifting, il buon Joe, l’ha fatto alle corde vocali: impressionante il suo stato di forma nel gestire ogni interpretazione, anche la più ardita, senza mai un cedimento. Risplende quel timbro euforico e sghembo che ci aveva sedotti nel nostro viaggio into the night, into the light. La prova del nove è la cover di “Life On Mars?” che omaggia David Bowie nel modo più fedele possibile: senza scorciatoie, ripercorrendo fino in fondo quei sentieri vocali scoscesi e insidiosissimi, in compagnia del tocco fatato del piano. Sarà la commozione per il Duca Bianco, sarà la performance maiuscola, ma quasi viene giù il teatro.

E allora anche il compassato Joe si scalda e ci prende gusto. Senza rinunciare naturalmente alla sua ironia British: “Non so una parola d’italiano – taglia corto senza troppi complimenti – Vi proporrò le canzoni del mio ultimo album, più un paio di cover e qualche vecchio brano. Tutto qua”. Quasi non si sente la necessità della band, al cospetto di esecuzioni magistrali di vecchi classici come l’autobiografica “Hometown”, che lo ritrae diciassettenne, sospeso tra la voglia di fuggire via dal grigiore di Portsmouth e il richiamo di casa (“I seem to hear a distant sound/ Of waves and seagulls/ Football crowds and church bells”). O ancora una struggente “Be My Number Two”, quasi un inno per tutti gli uomini abbandonati (“Won't you be my number two?/ Me and number one are through”). Interpretazioni sentite, con il suo piano sugli scudi e lui a lasciarsi rapire dai versi, testa rivoltata all’indietro e gestualità sgraziata di sempre.
La title track di “Fast Forward” – “viaggio nel futuro per cercare di capire qualcosa del presente” – segna di fatto la fine dell’“opening act” solistico di Jackson, che via via introduce i membri della sua band, a cominciare dal bassista Graham Maby, che subito ingaggia un corpo a corpo con il suo piano nella sempre-caustica “Is She Really Going Out With Him?”. Poi è la volta di Doug Yowell (batteria) e Teddy Krumpel (chitarra), che salgono in cattedra su “Real Man”: Jackson si conferma anche arrangiatore sopraffino, lasciando spazio nel ritornello a un’esecuzione strumentale tempestosa chitarra-batteria, con Krumpel a smanettare su effetti e riverberi assortiti. Non è da meno la successiva “You Can’t Get What You Want (Till You Know What You Want)”, con una prestazione corale del quartetto che manda in visibilio il pubblico.

Stavolta non c’è bisogno di fiati e big band, anche questo assetto “ristretto” riesce a sprigionare tutta la potenza universale del sound jacksoniano. Come in “Another World”, il carosello percussivo a tinte black che dava il benvenuto nel "nuovo mondo" allo stupefatto Englishman in New York di “Night And Day” (1982). Altra ovazione, “Thanks for your support” - ribatte lui, prima di estrarre dal cappello il bigliettino con la cover del giorno: “Stavolta tocca a un pezzo heavy metal con i timpani”, sghignazza, e attacca a sorpresa “Knowing Me Knowing You” degli ABBA, che è sempre stato un pezzo della madonna, ma asciugato in chiave rock seduce anche i più schizzinosi. E per sgomberare il campo da ogni residuo di melassa, sopraggiunge una fulminante “Sunday Papers” (dal debutto “Look Sharp”, 1979), con la sua scarica di fiele contro la stampa scandalistica a ritmo punk-ska.

I brani dell’ultimo album si confermano merce ancora preziosa per il pop-rock contemporaneo: dal groove incalzante di “If It Wasn’t For You” e “A Little Smile” alla più soffusa “King Of The City”, in cui Jackson torna a cullarsi in atmosfere languide da night-club, fino a quella “The Blue Time” che celebra “il tempo in cui stai sognando e allontani i raggi di sole dalla stanza per non svegliarti”: “Keep On Dreaming” - come da titolo di un altro pezzo di bravura di “Fast Forward”, che dal vivo rinnova il suo rapinoso fascino soul. Chiude in gloria la “Ode To Joy” “dedicata ai fan di Beethoven”, in omaggio al celeberrimo “An Die Freude” della Nona Sinfonia, con tanto di ritmo in 5/8 e tema affidato alla chitarra elettrica. Dagli Abba a Duke Ellington, dal punk a Beethoven: questo è Joe Jackson, l’uomo che ha spazzato via ogni steccato musicale con la forza della sua coolness. Peccato solo per quella “Steppin’ Out” in versione rallentata e atmosferica, che stempera un po’ la carica dinamitarda dell’originale.

Ma è già tempo di bis. Non fa in tempo a rientrare in scena che se li ritrova tutti sotto il palco: braccia tese e telefonini selvaggi. “Togliete quelle dannate macchine fotografiche, siete qui per la musica, non c’è niente da filmare!”, li rimbrotta l’ex-gangster Spiv con la sua proverbiale ruvidità. “Adesso un pezzo per quelli a cui piacciono solo i miei primi due dischi e non sopportano tutti gli altri”. E via con lo scatto pub-rock di “One More Time”: tutti a saltare sotto il palco, con il chitarrista che lancia il plettro: non gli servirà più. Perché l’epilogo è affidato - come da tradizione - al fatidico lento che quel dannato dj si ostina a non mettere mai: “A Slow Song”. Intima, con il solo Jackson al piano e la band che saluta. Ora sembra un po’ stanco, con le sue sessantuno primavere e i capelli improbabili bianco-biondi a incorniciare i lineamenti un po’ irreali scolpiti dal lifting. Ma il gentleman britannico non si scompone, sfiora l’ultimo tasto, poi lascia andare il riff di tastiera in loop, alza le mani, la musica continua: “It’s magic!”, scherza col pubblico. Già, magia pura. Il prestigiatore scivola via, poi torna al centro del palco: ringrazia tutti, sembra davvero emozionato, forse non si aspettava un’accoglienza così calda, dopo tutti questi anni, dopo l’oblio imposto dai media e dalle mode. Ma lui, del resto, delle mode se n’è sempre sbattuto allegramente. Così come di molte altre cose, incluso il colore dei calzini (bianchi). Thank you Joe, play us (more) slow songs.