Si prega i gentili signori di spegnere tutte le apparecchiature cosiddette digitali, anzi spegnete tutto, tranne la vostra attenzione, che dovrebbe essere estrema, perché ci piacerebbe che penetraste sul serio i nostri spartiti, che provaste a entrare in connessione. Se ce la fate, godetevi anche il volo. Una volta atterrati, provvederemo noi a scattarvi delle foto.
Ed è un brulicare di spiriti, ansiosi, stanchi, bagnati, poco prima infreddoliti, ma ora è come se fossero stati trasportati in una zona desertica, dopo aver fatto uno step all'interno della foresta amazzonica. Non sanno dove sbattere la testa, ma il tempo accelera, anche se in maniera discontinua, frammentata, un vociare intenso, uno zigzagare senza meta. Ma poi le luci si abbassano, e fanno il loro ingresso sette uomini vestiti in maniera impeccabile, come dei perfetti maggiordomi di un castello dalle trame vittoriane, cravatte, gilet, forse ci scappa anche qualche pinces, forse qualcuno dei magnifici sette non è poi così impeccabile, probabilmente si intravvedono delle forme da cucina solerte e assai benvenuta, la mezza età impera, parte del pubblico, la maggioranza si chiede cosa ci facciano alcuni trentenni, potrebbe montare una clamorosa protesta dettata dall'invidia generazionale, perché tu sì e io no?!
E le luci si abbassano ancora di più, i sette accordano, come una perfetta macchina cameristica, o come quella volta agli Abbey Road Studios, "A Day In The Life", che bello viverne almeno uno e, infatti, siamo qui per confermare che sì, potrebbe essere una di quelle volte buone. Ora le luci sono veramente al minimo, gli smartphone sono inerti, la popolazione pure, si ode un sibilo, cresce e si espande, discreto ma malvagio, penetra la coltre di percussioni che suonano come posate d'argento su piatti di cristallo, la delicatezza messa a repentaglio, il controllo che domina la paura. E poi l'Uomo con uno scopo, Belzebub, il Crimso, il Re, il Bobby Goal incanutito, immobile e seduto, come se fosse un manichino, invece è un equilibrista che conosce i segreti per non soffrire mai di mal di schiena, irrompe, maligno, graffiante, e comincia a macinare, e i tre batteristi, posti di fronte a tutto e a tutti si scambiano i favori, si guardano, accennano un movimento, che sarà negato e invece replicato e poi allargato o solo alterato dal compagno di pelli, mentre Tony il baffetto avvolge lo stick con le sue trentasette dita, ma forse sono 64, e Mel Collins precipita tutto in uno dei tanti silenzi dall'aria rinascimentale, ma poi ci scopriamo tutti a fischiettare da perfetti Fratelli d'Italia, un omaggio, alla Monty Python, alla Dudley Moore, alla Sandro Pertini.
In tutto dieci minuti gelatinosi che non vogliono gettare la spugna e diventano "Pictures Of The City", cartoline abbaglianti infuocate, un chiasso senza freni eppure iper-controllato, dosato al millimetro per disturbare le menti, e le povere orecchie. Cavalcate e calci nelle terga, spintoni e quell'andatura insinuante, sinistra ma non sorniona, che viene ancora una volta replicata da "Dawn Song", che altri non è che un frammento, in continuità, solo più caldo, jazzoso, fiatistico all'eccesso, tratto da quel dipinto di Lucertola essiccata palesatosi all'alba dei 70, non si sa se d.C. o Avanti il prossimo, che infatti è "Red", rosso di sera bel tempo si spera, uno dei riff che hanno fatto la storia dell'altro rock, quello che non viene trasmesso ma dopo la mezzanotte magari invece sì.
E dopo tre quarti d'ora, mentre il rosso scorre nelle vene come pure negli occhi, ci accorgiamo che l'ossessività ritmica ha preso veramente il potere, anche in una vicenda che ha potuto contare sulle forze di Giles, Brudford & Muir, doppie batterie e singoli metronomi. Oggi sono in tre, con Patrizio detto Mister Mister Martellotto e Stacey con tanto di bombetta e corposità degne del Bonzo che fu, con tastiere che ne ammorbidiscono la figura, Gavin il trapezista, discreto, placido e rivoluzionario, Collins che soffia tutto coperto dal plexiglass che ne smorza i suoni, che si infilano nelle dodici corde, sei più sei del capo e del nuovo discepolo, il polacco che sembra Lake, che non sballa come Adriano, che amalgama, che apre, allarga gli spazi del Circo, con Mel che gli dà manforte e non frattura.
Ma poi la "Fracture" arriva per forza, perché il custode del regno non può tollerare i percorsi troppo lineari, e allora ecco gli inciampi, le esitazioni, l'ossessione e il picking alternato, gli unisoni, i silenzi e le urla, con il baffo Tony che incornicia il vortice e pulsa, pulsa, gonfia e spinge. Una coda che pare una corsa a perdifiato, al punto che la fine potrebbe essere proprio Lei, un Epitaffio, la cui rilettura sembra suonare didascalica, ma una tribalità di fondo la corrompe pur non rinnegandone lo spirito sì profondamente sixties, con Jakko Lake che lascia andare struggimento e straniamento, una confusione mitigata da uno stop by Mel, lo zio Collins, commovente in una sorta di addio alle armi, e infatti il caporale è lì, sempre impettito, che scruta, alterna plettro e tasti simil-avorio, annuisce, ma solo in forma telepatica.
Ed è lui a comandare un break assertivo, tutto giocato sulle percussività del terzetto d'avanguardia, una sorta di ponte per un ennesimo attacco ai ricordi, "Easy Money", con il polacco che prova a irruvidire l'ugola, e tutt'intorno si avvertono gli interscambi strumentali che sanno di ironia, un tocco di qua, un soffio di là, uno slap in su, due tocchi di tom e Collins che contrappunta con sorriso. I sibili del capo come delle porte scricchiolanti nella notte, attacchi alle spalle che si tramutano in abbracci comprensivi, le tastiere echeggianti il vecchio Mellotron, mentre le sei corde si impennano, ma evitano di raggiungere l'apice, implosioni che aggiungono tensione a tensione, mentre all'orizzonte spunta Jakko, ed è sempre più vicino...
Da qui, come se le acque si fossero definitivamente aperte e con loro le menti, liberate da ogni tensione settimanale, annuale, esistenziale, e vorresti alzarti e tornare a casa e però e come se fossi bloccato, e ti sembra di sentire qualche richiamo familiare in mezzo alle strofe, ti giri e il tizio accanto ulula e poi lo vedi dormire e poi ululare, due caramelle che ti impastano la bocca, i gomiti che ti sfiancano il costato, presta attenzione, ti sei accorto, di "Indiscipline" nevrotica come d'uopo se non fosse che il polacco la canta come se i testi fossero stati scritti da Poseidone, o era Sinfield? E infatti d'un tratto siamo tutti a corte, dinnanzi al re, e i cori di approvazione si sprecano, e ancora Lettere d'amore per tutti, con piatti spazzolanti e Collins fine e pure dicitore, il postino è arrivato con le venture del marinaio, jazz a per di fiato, Mel che sassofonizza tutto, su un corpus ultra-ritmato, da inseguimento poliziesco d'antan e Fripp che rivaluta il lavoro siderurgico e taglia a fette tutto, soprattutto quelle lingue che ci avevano provato, fino a cinque minuti prima del fischio d'inizio a sussurrare che la nostalgia era dietro l'angolo, la covermania subito appresso, la celebrazione sempre vuota e a rimorchio dei conti bancari.
Pfui! Attacco lunare, schiaffoni in faccia, calcioni pedagogici, siluri frippiani, la nuova-vecchia Africa che ricongegna i suoi riti, Rinascimento folk in mezzo ai grattacieli, foreste metropolitane dinanzi al castello di Artù, "Level 5", oltre il livello di guardia, arpeggi diatonici in ascesa costante e botte da orbi dei tre istancabili. Poi però è l'ora di "Starless", ma Tony non la sa suonare, si dice in giro, o la sa suonare troppo, o non gli piace, o non so cosa dire, perché le stelle mancheranno ma qui è un'esplosione di luce, con Collins che irrompe sulla frammentazione dei ritmi, come avrebbe fatto Adrian con la leva del mestiere, ma con genio incorporato. L'uomo schizoide è servito, come dessert, dopo che Gavin ha fatto parlare i tamburi, però sul serio, e alla fine se la ridevano e salutavano pure. Anche i Crimson, che invitavano persino a immortalare mediante obiettivo, ma tanto lo sapevano già che il ricordo, abbastanza indelebile, sarebbe bastato.