
In un periodo in cui sempre meno band internazionali passano dall’Italia (le ultime assenze che stanno facendo rumore sono quelle di Daughter e Suede), almeno i Kula Shaker hanno deciso di farsi vedere qui da noi con una doppia data. Certo, alla fine il prezzo del biglietto non era bassissimo, però l’affluenza di pubblico è stata ottima, almeno qui a Milano, per cui forse in futuro si potrà pensare di osare nell’alzare il prezzo di ingresso per portare qui da noi band apprezzate senza perderci economicamente. Non siamo organizzatori di concerti, quindi non ci vogliamo sostituire al loro lavoro, però dopo questa serata una riflessione in tal senso è d’obbligo.
La band inglese si porta dietro per tutto il tour europeo il quartetto dei Black Casino & The Ghost, progetto nato a Londra e che annovera tra le proprie fila due italiani, la cantante e il chitarrista. La frontwoman all’inizio fa per parlare in inglese per automatismo, ma poi si rende conto di essere in Italia e di potersi esprimere, quindi, nella propria lingua madre. Al di là della questione su come relazionarsi con il pubblico, il set piace perché le canzoni si rivelano ben scritte e ben interpretate, con un’ottima sensibilità sia vocale che strumentale e una buona varietà tra un brano e l’altro. La band si definisce come “un misto tra blues del delta, ballad guidate dal pianoforte, alternative rock e arrangiamenti orchestrali cinematici” e questa descrizione si riflette pienamente nella mezz’ora di performance sul palco. Personalmente, preferisco i momenti più chitarristici rispetto a quelli più pianistici, però in generale si è trattata di una bella scoperta e, a giudicare dagli applausi ricevuti, sono in tanti tra i presenti che approfondiranno la conoscenza di questa band.
Alle 21.45 è il momento degli headliner, che non si vedevano a Milano da nove anni. Come l’ultima volta, l’inizio è affidato a “Sound Of Drums”, brano di sicuro impatto e capace di mettere il pubblico a proprio agio. Si capisce subito che sarà una bella serata: Crispian Mills mostra una certa energia sul palco e non si risparmia nel canto. Potevano esserci dei dubbi sullo stato di salute del frontman, perché in alcune interviste aveva detto di aver subito una frattura alla costola i cui postumi si stavano ancora facendo sentire e, cinque giorni prima, la data di Parigi era stata annullata per mancanza di voce.
Nel corso dell’ora e mezza di show, ci sono effettivamente i momenti nei quali Crispian pensa più a gestirsi che non a scatenarsi, ma la sua ampia esperienza fa in modo che il dosaggio delle energie avvenga in modo da non perdere mai il feeling con le canzoni e con il pubblico. Le pause in termini di tenuta di palco e le linee vocali riadattate per essere più facili da cantare, quindi, passano indolori proprio perché sono inserite in modo sapiente all’interno di una performance nella quale, per la maggior parte del tempo, sembra di rivedere il Mills degli anni Novanta.
Il merito è anche del resto della band, che non sbaglia un colpo e suona sempre con passione e voglia, in modo che alla gente arrivi non solo la particolarità dello stile musicale dei Kula Shaker, ma anche un’intensità emotiva fuori dal comune. Anche la setlist è ben orchestrata, con l’unico appunto che riguarda la totale esclusione di “Strangefolk”, un buon disco che non meritava di essere l’unico senza alcun estratto suonato qui. Anche i due dischi successivi, compreso quello uscito recentemente, sono poco considerati con sole due canzoni a testa, ma questa scelta è senz’altro più comprensibile, visto che è difficile lasciar fuori le tante bellissime canzoni contenute nei primi due album.
Le esecuzioni riflettono piuttosto fedelmente la forma dei brani su disco, con l’eccezione di una “Shower Your Love” più asciutta e aspra, e la gente non fa mai mancare un supporto caloroso con grandi cori e applausi. Crispian Mills nella nostra intervista ci ha detto che il pubblico rappresenta metà del concerto e in effetti il contributo della gente nel creare la giusta atmosfera si rivela determinante.
Il calore del pubblico cresce con l’andare avanti del set, anche perché quasi tutte le canzoni di maggior presa vengono tenute per il finale: “Mystical Machine Gun” provoca il coro più potente fino a quel momento, “Tattva” (con inserto di “Hallelujah” degli Happy Mondays) e “Hush” prima degli encore fanno definitivamente impazzire la folla, “Hey Dude” e “Great Hosannah” sono la ripartenza perfetta per far sì che il pubblico abbia voglia di cantare senza remore sul brano che, da sempre, chiude i concerti dei Kula Shaker.
Si può apprezzare o no questa band, ma bisogna ammettere che l’aver creato un brano in sanscrito che la gente canta a memoria in qualunque luogo d’Europa e, forse, del mondo, è un piccolo miracolo, figlio anche di un mercato discografico che, ai tempi, non aveva paura di promuovere una pezzo composto in una lingua così strana. Se oggi uscisse una canzone come “Govinda”, avrebbero tutti paura di suonarla in radio, invece all’epoca il brano aveva ricevuto un’esposizione mediatica degna dei migliori tormentoni, così oggi siamo tutti qui a cantare più forte che possiamo “Govinda jaya jaya, gopalla jaya jaya, radha ramanahari, Govinda jaya jaya”, senza nemmeno sapere cosa vogliano dire queste parole ma con la gioia nel cuore. Crispian fa semplicemente il direttore d’orchestra lasciando a noi i compiti dal punto di vista vocale e il finale si rivela perfetto per una serata da ricordare.
Peccato solo essere costretti a vedere dal vivo i Kula Shaker così raramente, ma finché i concerti saranno così belli, varrà sempre la pena aspettare.