È una calda sera di luglio inoltrato, a Palma di Maiorca. I bagnanti hanno da poco abbandonato l'arsura della spiaggia, rifugiandosi davanti a qualche tavolino del centro, nelle taperie vicino al porto, a bere sangria e trangugiare montaditos. Di lì a poco i giovani si trasferiranno più a Ovest, lungo l'infinita strada del lungomare, l'Avinguda de Gabriel Roca, cuore della vita notturna: locali, discoteche, luci fluorescenti e musica house, sparata così forte da annichilire il solitario sciabordio delle onde.
A tre chilometri di distanza dal centro, lontano dalla fiesta collettiva, si erge imponente - su un pendio sopraelevato, circondato da un bosco deserto - il Castello di Bellver. Esempio eccelso di stile gotico spagnolo, è una grande fortificazione a pianta circolare, costruita per volere del re Giacomo II di Maiorca come residenza reale, poi modificata nei secoli successivi. La sua mole imperiosa è visibile da qualunque parte della città, grazie anche al candore della pietra calcarea con cui è costruito, il marés, estratto dalle cave della vicina Minorca. Quella sera, accanto al suo ingresso, raggiungibile attraverso una strada tortuosa, era affisso un cartello che segnalava l'imminente concerto di una musicista americana, il cui nome - sconosciuto ai più - aveva chiare origini italiane: "Lisa Germano".
Certo, sorprende un po' che Lisa Germano, forse la cantautrice più tormentata, irrequieta e intimista di sempre, abbia scelto proprio la ridente Palma di Maiorca per tornare in concerto (unica data europea), dopo tre anni di silenzio. Piccola nota per i tanti che non la conoscono: Germano, violinista e polistrumentista di formazione classica, è considerata dalla critica musicale come una fuoriclasse e "Geek The Girl", il suo album più celebre uscito nel 1994 per la 4AD, è ritenuto uno dei massimi capolavori degli anni Novanta: una messa cantata dei tormenti, delle paure e delle più indicibili ossessioni che chiunque prova, almeno una volta nella vita, negli anni della giovinezza. Ma proprio perché quasi ogni canzone di Germano è una pugnalata al cuore e sviscera il dolore umano con la perizia di un chirurgo, Lisa non ha mai conquistato ampie fasce di pubblico. I suoi fan, fedelissimi e sparsi in tutto il mondo, sono mosche bianche, troppo pochi per consentirle di vivere di sola musica; per questo Lisa ha alternato la sua ormai ventennale carriera a un posto sicuro come commessa in una libreria indipendente sul Sunset Boulevard di Los Angeles. Nel 1998, dopo l'uscita di "Slide", che vendette appena seimila copie, aveva deciso di smettere con il songwriting, per poi cambiare idea quattro anni dopo, con l'uscita del bellissimo "Lullaby For Liquid Pig" (ripubblicato nel 2003 per l'etichetta Young God Records di Michael Gira, leader degli Swans). Così, a 58 anni, Germano si divide tra l'apprezzamento incondizionato di critici e illustri colleghi, con i quali ha spesso lavorato (gente come Eels, Calexico, Iggy Pop, Yann Tiersen e perfino il compianto David Bowie - solo per citarne alcuni) e l'indifferenza generale del pubblico, compresi i sedicenti cultori del cantautorato di classe.
Dopo l'uscita del suo ultimo album, "No Elephants" (2013), Lisa ha abbandonato la sua amata Los Angeles, dove viveva da oltre dieci anni, per tornare nella cittadina della sua famiglia, nello stato dell'Indiana. Nell'ultimo periodo, per sua stessa ammissione, non ha avuto quasi tempo per la musica e non ha progetti imminenti per il futuro. Il suo ritorno sul palcoscenico si deve a Tomeu Gomila, fondatore dell'associazione culturale Orphans of Waits, un uomo brizzolato dal viso simpatico con il quale riesco a scambiare due chiacchiere il giorno prima, all'interno dell'unico negozio di vinili della città: "Ho scritto a Lisa: se provassi a organizzarti un concerto nella location più cool di Palma de Maiorca, per te sarebbe ok? Lei mi ha risposto di sì, anche se era un po' arrugginita. Dopo un paio di mesi la cosa era fatta e non mi rimaneva che prenotarle i biglietti aerei".
|
Quella sera, varcato l'ingresso, due ragazze vestite in abito lungo mi strappano il biglietto con un educato sorriso, indicandomi una bella stradina in ghiaia bianchissima che conduceva al maestoso portone del Castello, circondato da tre torrioni e un maschio. Dentro, un nutrito gruppetto di persone altrettanto eleganti conversava, i calici in mano, mentre davanti a un banchetto pieno di tramezzini al
jamòn un giovane cameriere versava del vino rosso. "Ma è davvero qui che suona Lisa?", mi domando. Un ambiente così raffinato e perfetto non era certo la
location tipica per un'artista come lei, per lo più abituata a club alternativi e vagamente fatiscenti - come quello a Ginevra, dove andai a vederla nel lontano 2006, o nel locale di Firenze a ridosso della stazione, che somigliava più alla sede di un dopolavoro ferroviario. Finalmente grazie a Tomeu, pensavo, Lisa ha a disposizione un luogo fisicamente consono alla grandezza della sua arte. Poco dopo, però, prima di varcare la soglia del portone, mi sorge un dubbio improvviso: "Quanti, fra questi spagnoli, sono venuti davvero per Lisa Germano e non per la
raffinata-cantante-americana che suona al Bellver? In quanti, oltre a me, conoscono a memoria le sue canzoni e avrebbero fatto la follia di prendere un volo dall'Italia solo per vederla?".
L'interno dell'edificio è una meraviglia. Nell'ampio cortile a forma circolare, il bagliore di luci calde e soffuse rischiara gli archi ciechi che si rincorrono sotto splendide bifore gotiche, mentre ancora più su l'azzurro cupo del cielo senza nuvole porge l'ultimo saluto prima dell'oscurità della notte. Corro verso i posti migliori, guardandomi intorno per vedere se lei era già arrivata. Sono eccitato, ma provo anche un'insolita tensione, difficile da spiegare per chi non ha mai ascoltato Lisa Germano: un luogo troppo importante, lussuoso, e intorno troppi sorrisi dei
borghesi maiorchini che - lungi dall'aver mai provato l'abisso, o mai desiderato talvolta perdersi, in esso - avevano l'aria di chi vuole solo passare una bella serata all'insegna della buona musica, disquisendo su quanto era brava la
raffinata-cantante-americana che stavano per ascoltare. Probabilmente erano paranoie assurde, forse egoistiche e puerili elucubrazioni tipiche del fan duro e puro che crede di essere il solo in grado di poter capire e apprezzare il proprio idolo ermetico e dannato (logiche un po' da
hipster, che negli altri ho sempre detestato). In fondo, chi ero io per poterli accusare di superficialità? Chi mi diceva che la gente seduta intorno a me, che pure dimostrava di conoscere alcune sue canzoni, non avesse passato notti insonni con i lamenti disperati di "A Psycopath" o il falsetto infantile di "Cancer Of Everything" in cuffia? Eppure, la sensazione che avevo non doveva essere del tutto sbagliata ed ero pronto a giurare che anche Lisa, come e più di me, in quel momento si sentisse un po' fuori posto.
Dopo pochi minuti le luci si abbassano, ad eccezione di due fari che rischiarano il palco; sul lato sinistro, un pianoforte a coda Kawai, nero e lucido come un'enorme cavalletta dormiente. Come dal nulla, entrano in scena due giovani donne che si guardano intorno con l'aria impacciata, rivolgendosi ai presenti come due educande nel giorno della recita scolastica. La prima alta e magra, frangia e lunghi capelli color cappuccino, la seconda più bassa e grassottella, con occhiali neri. Entrambe indossano lunghi
hennin azzurri, i copricapi a forma di cono allungato tipici delle fate delle fiabe. "Siamo le Codo e facciamo cover
de mierda", gridano in coro, dopo aver cantato una personalissima versione di "All Tomorrow's Parties" dei
Velvet Underground & Nico, accompagnata da qualche accordo sbilenco dei loro ukulele. All'inizio le loro voci stonate e tutt'altro che armoniche mi sembrano uno strazio; poi, a poco a poco, inizio ad adorarle. Per oltre mezz'ora infatti rivisitano con originalità, leggerezza e un pizzico di sarcasmo alcuni capolavori tristi come "Love Will Tear Us Apart" dei
Joy Division e "Henry Lee" di
Nick Cave &
PJ Harvey, accompagnate dal ritmo di tamburello basco. Buffe e svampite, dotate di squisita autoironia, come due
Bianca e Sierra Casady iberiche ed ebbre di tequila. Alla fine si congedano con un divertente siparietto, accompagnate da un applauso convinto.
Durante il concerto delle "
Cocorosie delle Baleari", mi volto spesso in direzione dell'altro lato del cortile. E finalmente, dopo nove anni rivedo Lisa Germano, intenta a scattare una foto con il cellulare in attesa di entrare in scena. Dopo una pausa di pochi minuti, una voce maschile annuncia il suo nome. Sale sul palco con la solita andatura dimessa, come se fosse capitata lì per caso, ma poi si siede davanti al pianoforte e accenna un sorriso al pubblico. Non sembra molto cambiata: i suoi capelli lievemente ondulati e nerissimi stretti in fondo in una coda di cavallo, ad eccezione di due ciocche che le scivolano ai lati del volto, tra quel suo sguardo gentile e i suoi gesti da bambina invecchiata, proprio come la sua voce. È vestita in modo molto semplice, da perfetta antidiva fiera del suo anonimato: canottiera nera e gonna, anch'essa nera, lunga fino alle caviglie. Il mio sguardo attento nota però il filo di trucco, l'
eyeliner e il rossetto, la capigliatura più ordinata e un aspetto tutto sommato più curato delle altre volte, quando si presentava con le rughe e i segni del tempo, quasi fossero le prove esteriori della nuda verità della sua arte. Lisa Germano è tutto sommato una bella signora, e stavolta non ha voluto nasconderlo; dopotutto, questo è un posto
chic. "Sono felice di essere qui, in questo posto incantevole. Grazie per avermi invitata. Temevo di non poter più venire, ma alla fine...
I made it!", conclude con una risatina nervosa. Sento un brivido nel ricordare quando pochi giorni prima - dopo aver prenotato ostello e biglietto d'aereo - avevo visto con orrore le parole "concerto annullato" sulla pagina Facebook dell'associazione. Pochi giorni dopo, Lisa aveva cambiato idea e l'evento era stato miracolosamente ripristinato, inducendomi per un istante a credere all'esistenza della grazia divina.
|
"Such a cold world, such cold times...". Lisa inizia a sfiorare i tasti bianchi e neri del pianoforte, e ancora prima che inizi a cantare riconosco le note della prima canzone, "Diamonds", che segno frettolosamente sul taccuino. Sussurra i primi versi, piena di grazia, e mi accorgo con sollievo che il suo talento è rimasto intatto. Che dopo vent'anni di carriera e tre di inattività, Germano è ancora in grado di incantare con voce e pianoforte, ipnotizzando chiunque la osservi, trascinandolo in una dimensione senza tempo. La magia continua con "Dreamland", la seconda canzone, risalente al 1995 e contenuta nell'ormai introvabile raccolta di inediti "Rare Unusual Or Just Bad Songs". Seguono poi altre due canzoni dell'ultimo album che ha come tema centrale gli animali: "Ruminants", ode cantata con un filo di voce accompagnata da poche note di pianoforte, e la
title track "No Elephants", canzone su un'ipotetica battaglia tra api, in cui intona scherzosamente i versi di animali per sostituire i
field recordings contenuti nella registrazione in studio.
Tra una canzone e l'altra, Germano si prende qualche pausa per introdurre le tracce o spiegare la loro origine. Come "Too Much Space", dedicata al padre: "L'ho scritta alcuni anni fa, poco prima che si sottoponesse a un importante intervento; lui era in ospedale e io a casa preoccupata, e non accettavo l'idea che non potessi fare altro per lui che dedicargli una canzone. Per fortuna tutto si è risolto"; oppure "Last Straw For Sale", ispirata ai piccoli litigi quotidiani, e alle successive riconciliazioni, con l'attuale compagno. Immancabili le parole d'affetto nei riguardi dei suoi amati gatti, cui ha dedicato alcuni brani strumentali, e che i fan hanno imparato a conoscere. Negli anni Novanta c'era Miamo-Tutti, che aveva dato il nome a una traccia dell'album "Happiness", oggi c'è Marypan e altri felini (la schizofrenica "Kitty Train", secondo l'autrice, riproduce il loro percorso quotidiano in fila indiana per salire e scendere dal suo letto).
Quasi tutte le canzoni della scaletta, come prevedibile, fanno parte degli ultimi due album, che qualitativamente sono inferiori rispetto ai capolavori precedenti. In "
Magic Neighbor" (2010) e "
No Elephants" (2013) è rimasto davvero poco della stupefacente fertilità creativa degli anni giovanili. Siamo distanti anni luce da canzoni come "Cry Wolf", "Destroy The Flower" e "We Suck", in grado di toccare le corde più profonde dell'animo umano, affrontando temi come lo stupro, l'amore malato, la morte e la mancata accettazione di sé in modo semplice e terribile.
Ma, si sa, anche i grandi invecchiano, trovano un equilibrio ai loro drammi e a volte esauriscono quello che hanno da dire. Eppure, almeno nei concerti Lisa Germano era ancora capace di aprirsi totalmente attraverso la sua musica: davanti ai pochi appassionati, all'interno di club spesso sgangherati, trasformava ancora le due ore di concerto in una messa catartica collettiva (senza però sfiorare i livelli emotivi degli anni Novanta, quando a volte doveva interrompersi a metà esecuzione perché scoppiava a piangere).
Lisa Germano però è diversa, questa sera: come il trucco sul suo viso, tiene una sorta di maschera che copre i sentimenti più viscerali e profondi che esprime la sua musica. In un'atmosfera così elegante e raffinata, davanti a un pubblico che, forse, non aveva voglia di deprimersi troppo e si aspettava la
raffinata-cantante-americana, ha finito per accontentarli: ha messo il pathos in secondo piano, privilegiando i virtuosismi al pianoforte, che ben mostrano la sua formazione classica, e le doti vocali, migliorate tantissimo rispetto a vent'anni fa. Forse è solo una mia sensazione.
In ogni caso, verso la fine del concerto, mi sono trattenuto dal chiederle la mia canzone preferita, "Of Love And Colors...", che inizia così: "People, all this fucked up people...": che reazione avrebbe avuto l'educata anziana signora seduta al mio fianco?
Épater la bourgeoisie è sempre cosa buona e giusta, ma ho preferito non metterla in imbarazzo. D'altronde, gli artisti schivi, come i poeti, sono così: cantano solo per chi li vuole ascoltare. Non sono rockstar, non vogliono sovvertire: scappano o si adeguano.
Nick Drake fuggiva dai suoi concerti, quando aveva il presentimento di non sentirsi apprezzato; Lisa ha preferito interpretare la sua parte, senza voler distruggere la troppa bellezza con impropri pensieri di morte.
A parte questo, l'incantesimo si è comunque compiuto e il concerto ha avuto diversi momenti degni di nota, soprattutto nella parte finale, quando è passata alle canzoni più datate. Da ricordare l'evanescente "Angels Turn To Devils", altra canzone assente negli album ufficiali; il ritmo sommesso di "Except For The Ghosts", scritta di getto nel 1997 dopo l'annegamento di
Jeff Buckley vicino al fiume Mississippi; "If I Think Of Love" e "It's a Rainbow", le due tracce pubblicate nel 1997 nell'album "Slush", in collaborazione con John Convertino dei
Calexico; l'eterea "Guillotine Love", dove un scarno arpeggio accompagna un sonetto sull'amore finito che potrebbe essere scritto da uno Shakespeare vissuto nei giorni nostri: "After your voice/ Cuts through my chest/ How can I stand/ To hear again?". La serata si chiude con la malinconica "Wood Floors" e "The Darkest Night Of All", la personale buonanotte di Lisa, naturalmente insonne: "How can you sleep through this?". Il climax della serata viene però raggiunto quando canta "From a Shell", probabilmente la sua canzone più celebre perché inserita nella colonna sonora del film "
Underworld", con Kate Beckinsale. "Ho scritto questa canzone pensando all'amore", sussurra Germano con la solita voce da bambina annoiata, prima di cantare. "C'è troppo odio nel mondo... Se penso a quello che è successo a Nizza pochi giorni fa...". Per qualche secondo, Lisa rimane in silenzio, limitandosi a fissare i tasti bianchi e neri del pianoforte. Un brivido mi percorre la schiena; mentre cerco di dare una forma alla mia emozione, lei ha già ripreso a cantare, con un filo di voce: "From a little shell at the bottom of the sea...".
Lisa Germano accenna un timido saluto e scappa via quasi correndo, senza godersi il meritato applauso. Il pubblico la chiama a gran voce, ma lei non ritorna più sul palco. A me serve aria, sono quasi in lacrime. Pochi minuti dopo la ritrovo fuori, mentre conversa con Tomeu. Avrei voluto intervistarla, ma lei mi fa capire che non è cosa. Trattengo un sospiro di sollievo: se avesse accettato, non avrei saputo come affrontare un colloquio alla pari con quella che è di gran lunga la mia cantautrice preferita sin da quando ero ragazzino. Vorrei dirle tante cose, ma mi limito ad abbracciarla, sussurrarle due frasi da fan e a regalarle, insieme a un amico, il vinile con la colonna sonora di "Eraserhead" di
David Lynch. Prima di uscire nel buio della notte, in mezzo al bosco, e ripercorrere il cammino a ritroso verso la costa, perso nei vibranti ricordi di una magica serata.
Foto di José Luis Luna