È puntuale Francesco Motta, quando sale sul palco di Riverock. Il festival di Castelnuovo d'Assisi è troppo "urbano" per potersi permettere eccessivi ritardi e questo, quando si vuole davvero assistere a un concerto, può essere soltanto un bene. Se Motta si muove, si muovono anche un paio di jeans, una maglietta a maniche corte e una folta chioma, come quella immortalata sulla copertina de "La fine dei vent'anni", evocazione, neanche troppo velata, di quel Jim che nel lontano '71 ha misteriosamente smesso di esistere.
Non è così caldo da inzupparsi i capelli d'acqua, ma Motta lo fa, alternando gocciolanti scrollamenti del capo a commenti pregni di accento toscano. È palesemente un concerto come tanti altri per l'ex-Criminal Jokers, ma quando le canzoni del suo esordio discografico si propagano nell'etere umbro, trasudano energia e passione, vestendosi di sonorità più elettriche rispetto agli abiti originali. "Del tempo che passa la felicità" colpisce più di tutte, con Motta ad arpeggiare una classica e ad esibire una voce riconoscibile come poche, tra la cerchia dei debuttanti italiani del 2016 (si ascolti Sylvia, se proprio si sta cercando un altro raro esempio).
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L'esibizione passa veloce e non soltanto per l'esiguo numero dei pezzi in scaletta. "Roma stasera" deflagra, "Sei bella davvero" - la canzone da dedicare alla propria fidanzata, se si vuole travisare il senso della stessa - se ne va corriva, ma fa cantare. "Prima o poi ci passerà" sembra un omaggio ai
Daft Punk e, mentre qualcuno ci canticchia sopra "Get Lucky", si crea un improbabile e surreale triangolo: Parigi-Assisi-Livorno, che diventa un quadrilatero, ogni qual volta le chitarre dei Calexico si materializzano proprio lì, su quel palco, inaspettatamente.
Se il disco vanta la produzione egregia di
Sinigallia, dal vivo suona meno scarno, meno asciutto, meno scheletrico, ma altrettanto godibile. Motta, polistrumentista, racconta il passaggio dai venti ai trent'anni con lo stesso stato d'animo di chi osserva, all'alba, il morire di una notte brava; stringendo in mano le poche forze rimaste, perché c'è da rispondere con gli occhi aperti all'incedere di un giorno nuovo.
Ventiquattr'ore dopo, sullo stesso palco, salgono i
Marta Sui Tubi, tornati alla loro formazione originaria con l'uscita dell'ultimo "
LoStileOstile". Le assenze di Mattia Boschi (violoncello) e di Paolo Pischedda (tastiere) lasciano un vuoto decisivo, in cui rimbomba la chitarra del (comunque) bravo Carmelo Pipitone, costretto a fare gli straordinari per rendere meno pesante quella vacuità. Rimane un triste surrogato e i pezzi di "Sushi e coca", "Carne con gli occhi" e "Cinque la luna e le Spine" spesso risultano raffazzonati, imprecisi, asfittici nelle dinamiche e melodicamente storpie (tra tutte "Cristiana", "Dispari", "Vorrei" e "Di vino"). Veder suonare Pipitone così è come vedere un fuoriclasse, con il dieci sulla maglia, fare legna in mezzo al campo. Perlomeno, dalle tribune, il tocco di palla sarebbe comunque visibile; nel caso del chitarrista, invece, neanche le dita sulla tastiera sono percepibili dal pubblico, tanto è il tempo passato da Pipitone con il viso rivolto verso la batteria, assumendo una fastidiosa posizione per tutto il tempo dell'esibizione.
Se i Marta Sui Tubi sono tornati quelli di una volta, è proprio quando suonano i pezzi di una volta che toccano certe corde e fanno tossire l'anima. "Post" e "Cenere" sembrano messe in scaletta per ricordarlo, così come "Perché non pesi niente", onirica e pulsante, nonché il motivo per cui il palco di Riverock si trasforma d'improvviso in un'imbarcazione e lo spazio circostante in un'ambientazione marittima di un libro di Erri De Luca. I Marta Sui Tubi ricordano, qualora ce ne fosse bisogno, che il primo singolo di "C'è gente che deve dormire" - inveterato, ma non scalfito dal tempo - è anche il pezzo più bello che i siciliani abbiano mai scritto; docile ed energico, senza scomodare i paradossi, perché, se mai vi fosse contraddizione tra i due termini, i Marta Sui Tubi questa contraddizione l'hanno miracolosamente risolta.
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Promettendo che il ritorno in terre umbre non sarebbe stata una semplice coincidenza, la band siciliana si è congedata (con "Coincidenze", appunto) aprendo la strada al gruppo più atteso di questa edizione di Riverock. Quella strada, la sera dopo, i
Marlene Kuntz l'hanno percorsa innalzando un muro di suono che nessun dannato terremoto avrebbe mai potuto tirar giù. Il pubblico cambia, come cambiano, d'altronde, le mode e le correnti musicali con il passar degli anni. La sequenza dei tre artisti riflette un climax ascendente di età e questa serata, nella fattispecie, è quella di chi vuole tornare ad inizio anni Novanta, assaggiando di nuovo, anche soltanto per due ore, quella dimenticata bevanda post-adolescenziale al gusto di
Sonic Youth e
Nick Cave. C'è liquido per quelle ugole e c'è pane per i denti di chi crede che un urlo cacciato dalla gola, alle soglie del sanguinamento, possa far ancora naufragare e obnubilare i sensi. L'antistoricismo dei Marlene, dunque, si riflette non solo nei testi, ma anche nel loro essere Marlene e rimanere Marlene. "Cara è la fine", canta
Godano: pare che per la band di Cuneo la fine sia sempre prossima, ma questa fine, in fondo, non arriva mai.
Tra un pezzo e l'altro de "La lunga attesa" i quattro si inerpicano tra vecchi o vecchissimi sentieri ("Il genio", "A fior di pelle", "La mia promessa", "Ricovero virtuale", "Festa mesta"). "Sonica" è spaziale e, col senno del poi, sarà nient'altro che il grido di giustizia di "Nuotando nell'aria", esclusa dallo show, eppure tanto richiesta. "Ape regina", tra i bis, sfugge alla sua struttura, si liquefà e alfine torna solida, in un tripudio rock che non ammette altre definizioni per vedersi descritta adeguatamente.
Non c'è tregua quando si assiste a un live dei Marlene Kuntz. Ogni pausa è in realtà un tampone che viene meno, riaprendo un'emorragia curabile nel solo modo possibile: ricominciando a suonare.
"La canzone che scrivo per te" è un corpo estraneo; un imbucato alla festa, pentito, che non vede l'ora di andarsene senza dare nell'occhio. È il passaggio obbligato, il quale, in quanto obbligato, perde l'anima, il senso di essere e pure i propri naturali connotati, se Godano decide di stravolgere gran parte della linea vocale. Come in ogni pertugio dell'esistenza, sarebbe meglio non farla una cosa, se non la si vuole fare. Ma forse una regola la si capisce meglio attraverso i casi che le sfuggono o, più semplicemente, attraverso le loro eccezioni. E la regola di un'esibizione dei Marlene Kuntz, ancora oggi, è "qualità".
(Foto di Giuliano Vaccai)