Il culto di David Lynch esiste praticamente da quando il visionario regista/artista esordì nel cinema underground americano, a Los Angeles, dove per più di un anno le proiezioni notturne di “Eraserhead” (1977) hanno fatto la fortuna di una piccola sala d’essai. Quarant’anni dopo, date le attuali proporzioni del sèguito creatosi attorno alla sua figura, è più corretto parlare di una vera e propria cultura facente capo a immagini, personaggi, musiche, in generale “cifre” tanto diverse quanto inconfondibili (il miglior riferimento sull’aggettivo lynchano rimane il reportage di David Foster Wallace dal set di “Strade perdute”).
L’espressione in assoluto più trasversale di questo fenomeno ormai decisamente “pop” è la fascinazione per le ambigue atmosfere di "Twin Peaks", rinfocolate dall’annuncio dell’imminente terza stagione, a 25 anni dall’ultimo episodio. Senza alcun rimprovero, è evidente come Jamie Stewart abbia scelto il momento migliore per dedicare due progetti musicali all’universo di Lynch: in duo con Lawrence English (HEXA) per le cineree fotografie di vecchie fabbriche, e con lo storico progetto Xiu Xiu per un’audace rivisitazione della colonna sonora televisiva firmata da Angelo Badalamenti.
Un cortocircuito multidisciplinare che nei giorni scorsi – grazie alla collaborazione coordinata di realtà milanesi e torinesi, tra cui nientemeno che il Museo Nazionale del Cinema – ha riempito le sale del Cinema Massimo a Torino e del circolo Serraglio di Milano, forse con più ammiratori della controparte filmica che non di una band che si sta risollevando da una fase calante della propria notorietà.
Il trio anticipa l’esibizione con il solo rimbombo di un battito continuo, poco sopra i 60 bpm, che per i primi minuti lascia in attesa il pubblico, tra curiosità e leggera irritazione: si rivelerà essere lo scheletro ritmico del ben noto tema di Laura Palmer, col quale il gruppo fa finalmente il proprio ingresso in scena, avviando una messinscena al contempo estrosa e rigorosissima.
L’onnipresente bagliore rosso che tinge l’area del palco rimarrà l’unica suggestione visiva, laddove sarebbe forse stato utile un montaggio creativo, anche in chiave astratta, dal materiale dei primi anni 90. A questa presunta lacuna ha sopperito anzitutto la gestualità teatrale di Stewart, che con balletti introversi fuori sincrono e un’enfasi vocale esasperata (“Sycamore Tree”) ha accentuato il carattere grottesco delle nuove composizioni, già su disco più marcatamente espressionistiche rispetto all’originale.
Le grezze distorsioni della chitarra, l’effetto perturbante dei piatti d’ottone e i toni da organo infestato delle tastiere, infatti, sono gli elementi di base di una libera rilettura della soundtrack che, presupponendone la statura di classico, tende a rendere del tutto esplicite le sensazioni subliminali prodotte dall’immaginario della serie, sempre all’estremo confine fra il thriller psicologico e l’horror. I blues e le ballate contraddistinte dalle risonanze oniriche del vibrafono (su tutte l’ammiccante danza di Audrey) sono qui attraversate da spesse corrosioni electro-noise, virando le suadenti ambientazioni di Badalamenti in un panorama fortemente instabile, ad esso quasi antitetico se solo il tema non trapelasse insistentemente dalle bordate di rumore.
Dopo la sigla a lungo rimandata, riproposta dagli Xiu Xiu in forma di canzone col titolo “Falling” (in love, omissione quantomai azzeccata), il programmatico finale coincide con la sequenza “Josie’s Past”, epilogo essenzialmente lynchiano in cui Shayna Dunkelman – sinora quasi in sordina sul fronte scenico – recita con intonazione stridula e lagnosa il famigerato diario di Laura, intriso di rancore, self-loathing e istinti suicidi; ma la parola “fine” spetta ancora a Stewart, che impersona anima e corpo il tragico alter ego di Leland Palmer, canticchiando la filastrocca “Mairzy Doats” sui passi di un ultimo, raggelante balletto.
Poi solo un inchino, e ancora quel battito regolare al principio di tutto. Silencio.