(foto di Martina Monnanni)
Un’inquadratura sul mago che intrattiene la folla stipata nel salotto. La mano che si muove senza senso, prima della prestidigitazione. Uno stacco e un primo piano sulle cinque dita, con la voce fuoricampo che dice “anch’io mi muovo così, senza un piano preciso”. Sarebbe questa la prima scena del film di Andy Shauf, se soltanto quest’ultimo fosse un regista.
Invece Andy Shauf è un cantautore e “The Party”, il titolo del suo terzo album, un concept senza magniloquenza che ha l’unico intento di descrivere una semplice istantanea di vita vissuta, un'ordinaria festa che fa della sua insignificante normalità una fortezza inespugnabile di verità, un fossato senza ponte levatoio, che custodisce la purezza di istanti indescrivibili, nel senso che nessuno li ha mai considerati meritevoli di descrizione.
Stasera Andy Shauf suona al Monk e ancora al chiuso, nonostante l'estate e il caldo che si porta dietro. Lui sembra accusarlo e dopo pochi minuti chiede di poter suonare seduto, circondato dai suoi altri cinque elementi. Non si avverte un rumore, a parte il fastidioso suono del condizionatore, che a tratti sovrasta la musica, quando questa si fa talmente fioca da lambire il silenzio. Nella dinamica del sound di Shauf, non sembrano che esistere le espressioni piano, pianissimo, molto piano. Se vuoi fare due chiacchiere, stasera, non è la serata giusta.
Mentre parte "Quite Like You" e il chamber-pop del canadese si liquefà nel caldo della stanza, penso al fatto che se sei uno scout, c'è un modo preciso per chiedere il silenzio degli altri: fare silenzio. Shauf catalizza l'attenzione del pubblico suonando sempre più piano, sfiorando sempre più docilmente le corde della sua chitarra con le unghie delle sue dita, un po' come si fa per togliere la polvere da qualche vecchio oggetto lasciato in soffitta. Vecchie come quelle feste che una volta si organizzavano in casa. "Begin Again/ this time you should take a bow at the very end", canta Shauf con voce flebile. Io chiudo gli occhi e rivedo qualche scena de "Il Giardino delle Vergini Suicide", il film più bello di Sofia Coppola. Vedo la festa organizzata dalle ragazze, la scena del diario, mi ritornano in mente frasi che conosco quasi a memoria: "Sentivamo come sia imprigionante la condizione di ragazza, come rendeva la mente più attiva e sognatrice e come, alla fine, si riusciva a capire quali colori andassero bene insieme". Penso agli Air e alle canzoni usate per quella pellicola, che sembravano scritte apposta per quel film. Anche loro, come Shauf, capivano l'importanza della "misura".
In “The Party” ognuno ha il suo piccolo spazio, da quello che arriva clamorosamente in anticipo, trasudando imbarazzo, a quello perdutamente innamorato e bolso di complessi di inferiorità, che gioca a fare la vittima con il destino, sperando che questo non sia il mero risultato delle azioni umane e quindi della sua inettitudine. Questi personaggi, oggi, trovano posto anche tra le mura di questo Circolo Arci, in zona Portonaccio.
La musica che esce dalle casse è identica a quella che uscirebbe dalle cuffie, se si riproducesse l'album. È come se qualcuno avesse fatto girare il disco e avesse piazzato sei ologrammi sul palco. Il piccolo miracolo che l’artista canadese partorisce è una magia didascalica, quasi cinematografica: immagini in slow motion, raccontate in prima persona e trasposte in musica come farebbe un cantautore che attinge da Elliott Smith, Damien Rice, Grizzly Bear, Sun Kil Moon e Lambchop.
Quando il concerto finisce e le luci si spengono progressivamente, assecondando la musica, provo una velata malinconia, ma anche la piacevole sensazione di chi ha appena sentito la sua canzone preferita. Si chiama "Martha Sways" e parla di una ragazza magra e bella. Me la immagino durante la festa, al centro del salotto, con un vestito floreale che si muove quando lei volteggia. È attiva e sognatrice. In un angolo del salotto sta suonando Andy Shauf. Con o senza amplficazione non fa differenza: "And dance dance to the radio while the.../ devil takes control".