05/03/2017

Black Heart Procession

Spazio 211, Torino


La Processione del Cuore Nero si è rimessa in marcia. Lentamente, sommessamente magari, ma intanto torna a farsi annunciare e già questa è una notizia. Otto anni, un silenzio discografico così lungo che, pure senza volerlo, non si sarebbe potuto impedire di riservare la fatidica “pietra sopra” anche alla fascinosa creatura musicale di San Diego, quasi un ricordo annebbiato per chi scrive qui.
Se non fossimo a conoscenza delle ragioni che hanno condotto a una simile pausa, avremmo archiviato la pratica nel faldone degli enigmi e avremmo finito per farcene una ragione, abbracciando alla fine un po’ per sfinimento la trita formuletta degli artisti che intendano “coltivare progetti collaterali”. Pall Jenkins, in effetti, ha provato a tenersi occupato. Non con gli Ugly Casanova, morti e sepolti da tempo, né con i Three Mile Pilot, fermi al palo dopo l’estemporanea epifania di “The Inevitable Past Is the Future Forgotten” (titolo quanto mai evocativo, col senno di poi), bensì seguendo tragitti ancora più marginali: le nuove suggestioni Paulo Zappoli & The Break, Mr. Tube & The Flying Objects e Built In Sun, quest’ultima condivisa con Joe Plummer e Richard Swift, oltre all’eserciziario per sega musicale dell’avventura in solitaria denominata Yukon Dreams, mai spinta al di là di qualche traccia su una pagina Bandcamp e sporadiche comparsate live, anche da queste parti. Tobias Nathaniel, al contrario, si è dato alla macchia per completare un percorso di studi interrotto in gioventù, ed è in questa sua aspirazione che va ricercato il vero motivo del congelamento del gruppo.

220x270_01_06Al di là della pur preventivabile ruggine del collettivo californiano, l’annuncio di questo nuovo tour europeo dopo la bellezza di sette anni appariva quindi particolarmente ghiotto, tanto più perché in apertura veniva segnalato un altro alfiere di quel medesimo sottobosco alternative di fine anni novanta, transitato in Italia appena un paio di volte in oltre vent’anni di carriera: Sam Coomes, cantante e chitarrista di quei Quasi assenti sui nostri palchi dalla stessa primavera 2010 dell’ultimo tour firmato Black Heart Procession. C’era più di un semplice interesse, da parte nostra, verso quella sua incarnazione solista giunta lo scorso anno a un nuovo debutto (dopo quello, più remoto, con il moniker Blues Goblins), ma con l’approssimarsi del via il Nostro deve averci ripensato e ha deciso di "bucare" l’appuntamento, per aggregarsi a Pall e soci solo a partire dalla prima delle date fuori dal Belpaese (con inevitabile scorno dei pur esigui aficionados italiani). Per mettere la proverbiale toppa, Jenkins ha assoldato il concittadino Kevin Branstetter – frontman dei veterani Trumans Water – nella nuova animazione in solitaria Worlds Dirtiest Sport, oltre all’usato garantito dei “figliocci” franco-veneziani Grimoon, già apprezzati qui a Spazio in occasione dell’ultimo passaggio della band statunitense.

220x270_02_05Giunti nel locale di via Cigna con qualche minuto di anticipo sull’orario di apertura, troviamo le porte già spalancate e un discreto manipolo di avventori già comodamente sistemati nel salone. E’ la prima incoraggiante avvisaglia di una serata evidentemente destinata al pienone, seppur (ma era un dettaglio già in preventivo) con un’età media, fra gli spettatori, stimabile intorno ai quarant’anni. Assicurataci la più comoda delle postazioni al gradino sotto il palco, mentre l’affollamento dietro di noi comincia a farsi ragguardevole, ci limitiamo a seguire l’esibizione curata da Branstetter (all’insegna di un noise-pop riverberato di marca grandaddiana o sebadohiana) solo di spalle, essendo preventivamente stato relegato l’artista su un tappeto all’angolo opposto rispetto a noi, per evitare la noia di un ulteriore riallestimento. Coi suoi loop, le sue stratificazioni e quella sporcizia gentile, l’effetto non è poi diverso da quello che offrirebbe l’ascolto in sottofondo del suo recente disco d’esordio, “Electroweak Phase Transition”, assolutamente disimpegnato ma non sgradevole, e che ci si perda la sua maschera da somaro (o era un lupo?), un archetto per suonare l’elettrica o una pedaliera kingsize, non pare proprio qualcosa di irrimediabile. A set concluso, lo spazio a nostra disposizione in prima fila si assottiglia anche per opera di una batteria di fotografi degna di un palazzetto. La temperatura percepita cresce in maniera direttamente proporzionale e sembra già quasi estate, con buona pace della pagina di marzo appena comparsa sul calendario.

220x270_06_05I Grimoon che ritroviamo sette anni dopo quel primo incontro sembrano una fotocopia un po’ sbiadita (e, sì, invecchiata) di allora. Ci si presentano a ranghi piuttosto ridotti con tre soli musicisti in luogo del cinque che ricordavamo (mancano batterista, bassista e secondo chitarrista, ma per la parte ritmica sono più che sufficienti le basi preregistrate a portata di pedale). Re e regina occupano comunque regolarmente le rispettive caselle: Alberto Stevanato nei panni dell’incontrastato mattatore, con la sua Martin & Co. elettroacustica, l’armonica d’ordinanza e un’infilata di distorsori da fare invidia al collega appena andato in scena; la corista Solenn Le Marchand davanti al fidato Moog Prodigy, nemmeno l’unico synth del loro allestimento dato che il più giovane compagno alla sua sinistra armeggia con un Opus 3. Entrano come in punta di piedi, indosso delle tutine coordinate da astronauti che fanno tanto sci-fi amatoriale, e promuovono con il consueto garbo una selezione di brani recenti dalle chiare evocazioni cinematografiche. Non si tratta di una suggestione casuale. Dal 2010 hanno pubblicato due dischi, il più recente dei quali rappresentato dalla colonna sonora – con ospiti internazionali quali lo stesso Jenkins, loro produttore di fiducia, e Scott Mercado – di un film di animazione (in stop-motion, per lo più), “Vers La Lune”, cinquantamila fotogrammi da loro stessi realizzati un paio di anni fa.

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Il concerto di stasera funge allora da ri-sonorizzazione di quella stessa pellicola, sorta di sublimazione espressiva della poetica della band. Opzione nemmeno così originale, visto che gli show della ditta sono da sempre vere e proprie esperienze multimediali, con la musica plasmata sotto gli occhi del pubblico e pronta a intrecciarsi in un legame indissolubile con le immagini di queste curiose operine grafiche, in un insieme che sa essere affascinante e d’impatto al tempo stesso, pur senza deviare dalle linee generali di una semplicità genuina, di un minimalismo ben calibrato. E’ proprio questo equilibrio sostanziale e in fondo miracoloso a scongiurare il rischio della stilizzazione un po’ forzata, del carino a tutti i costi o della maniera che progetti di questo tipo spesso rivelano a una fruizione meno superficiale. Grazie al cielo i Grimoon si segnalano come caso a parte anche all’interno dell’insolita nicchia da cui si affacciano: suonano bene, hanno personalità e, a conti fatti, ci lasciano una sensazione di lusso e di anomalia per la scena alternativa italiana. E’ indie-pop dalle tonalità cangianti il loro, approntato con felice vena melodica, sonorità per lo più morbide, avvolgenti e d’atmosfera, pur senza disdegnare il brio dell’invettiva fantasiosa, scampoli di surrealismo color pastello, frangenti crepuscolari e giusto qualche passaggio più rumoroso e perturbato.

220x270_04_05Non passa un quarto d’ora dalla conclusione del set ed è già tempo di Black Heart Procession.
Con il mingherlino Tobias (sempre più in versione Rasputin) e un Pall al solito monumentale, ecco due attempati musicisti che non corrispondono ai collaboratori afroamericani che li accompagnavano nella precedente occasione in questa stessa venue ma nemmeno rispondono all’identikit di altri storici membri del gruppo dei bei giorni che furono – dal già menzionato Joe Plummer a Matt Resovich, passando per Mario Rubalcaba – e che in questa cronaca resterebbero senza nome, se non intervenisse Facebook a presentarceli come i serbi Vladimir Markoski e Boris Eftovski (membri del nuovissimo progetto di Nathaniel, i Red Step). Anche i due primattori pagano qualcosa al trascorrere delle stagioni, per quanto, al di là delle barbe più bianche rispetto a quelle conservate nella nostra memoria, non pare che la maturazione abbia lasciato strascichi particolarmente pesanti. La strumentazione è limitata alla chitarra Fender che i due protagonisti si alternano a suonare, l’immancabile sega elettrificata di Pall, il piano Yamaha di Tobias, l’hammond e la fisarmonica di Boris oltre ai rullanti di Vladimir, un batterista non di rado impegnato al violino o a gingillarsi con la vera chicca del waterphone (prima volta in assoluto che ne vediamo suonare uno dal vivo).

220x270_07_05In apertura abbiamo dimenticato di menzionare il pretesto ufficiale di queste ventisette nuove date europee (sei quelle italiane, da Porto Sant’Elpidio a Milano): c’è un ventennale da festeggiare. Loro ci spacciano quello dell’album d’esordio e abbracciano con buon opportunismo la formula dei dischi che l’opinione comune ritiene più rappresentativi, riproposti live per intero e con scalette nello stesso rigoroso ordine del modello. Tutto più o meno corretto, non fosse che il pur validissimo “1” non può essere considerato l’opera manifesto del collettivo di San Diego, né la migliore (in entrambe le categorie la palma spetta a "2"), e che la sua pubblicazione risalga non al 1997 bensì all’anno seguente. Inezie, si obietterà non a torto.
Quello che va in scena è un po’ un mood, come per altre formazioni artisticamente affini (vengono in mente i Giant Sand, o Lisa Germano, e chissà quanti altri), e allora una scelta può valere l’altra se lo spirito originario è preservato. Beh, la necessaria verità espressiva appare dal primo istante nelle corde dei quattro musicisti davanti a noi, dalla mesta introduzione notturna di “The Waiter”, e così realizziamo che sì, tutto filerà per il meglio. Nel precedente passaggio italiano la rinuncia agli archi e agli aerofoni limitava non poco il potenziale della band in termini di soluzioni sonore, scegliendo di privilegiare la sostanza di un sound più grezzo, diretto, quadrato, una resa rock opportunamente garantita dalla costanza di un bassista e di un batterista precisi e mai troppo incombenti, ideali per dare corpo alle canzoni a scapito della cura per gli arrangiamenti, da sempre uno dei valori aggiunti di questa creatura musicale.

220x270_05_06Torturato con gentilezza dall’archetto, il flessibile strumento-feticcio tra le mani di Pall manda i suoi lamenti enfatizzando, con sobria ma risoluta eleganza, le linee malinconiche costruite dalla tastiera da Nathaniel e da un violino pure umilissimo. Il biglietto da visita è impeccabile, ma pare ancora poca cosa al cospetto della litania triste di “The Old Kind of Summer”, brano che la fisarmonica impregna come pochi altri della seducente malia di questa band. La voce del frontman appare fragile, disarmata, ma dignitosa e priva di incertezze. Anche quelle poche emerse prima, legate all’amplificazione, sono dissolte e il magnetismo noir di “1” può fare il suo corso. E poi eccola la marziale cadenza imposta in sinergia dai rullanti e dal piano nerissimo di “Release My Heart”, con la roboante eloquenza dell’elettrica di Jenkins. Con “Even Thieves Couldn't Lie” il tono è volturato verso inflessioni più confidenziali, espediente indispensabile per smentire quell’aspetto da burbero Mangiafuoco che il corpulento cantante americano esibisce con assoluta indifferenza: barba e capelli lunghi, cappello scuro in testa, camicia nera e jeans senza pretese. L’apparenza non conta, sembra suggerire lui, valgono solo il cuore (nelle sue mille declinazioni, considerati i sette titoli su undici che portano intagliata questa parola) e la musica che può scaturire da esso.

220x270_03_06Quindi lo spleen dei californiani alza la posta (“Heart Without A Home”) e l’infezione riparte, più spietata che mai. “The Winter My Heart Froze” è il consueto, malevolo esercizio d’istrionismo per un Nathaniel che ama vestirsi di sinistre evocazioni, mentre la successiva “Stitched To My Heart” non perde un grammo del suo magnifico disincanto e restituisce la luttuosa angoscia di una ciurma che piega lentamente verso la deriva e l’alienazione. La luce risplende ancora per qualche prezioso frangente con la vigorosa celebrazione di “Square Heart”, prima che lo struggente esorcismo di “A Heart The Size Of A Horse” lasci definitivamente campo ai tormenti di questi poveri diavoli di musicanti. Gli applausi con cui li seppelliamo sono scroscianti, e un po’ questi complimenti li rivolgiamo anche a noi stessi, pubblico disciplinato e attento. Per sentire finalmente parlare i due Black Heart Procession, finora loquaci come sfingi, tocca attendere quei bis che ci spettiamo appaganti. La prima scelta ci conforta nella convinzione, perché si tratta di una “A Cry For Love” da pelle d’oca (anche più sanguinante dell’originale su “Amore Del Tropico”). L’opzione assai meno populista di “The War Is Over” (unico recupero da "Three") chiarisce una volta per tutte che la lingua con cui il gruppo ha scelto di raccontare questi venti anni di attività è quella della sofferenza, scelta ribadita dall’ultimo brano proposto, un inedito, dedicato da Pall al dramma di tutti i migranti, i suoi “vicini” messicani nell’America terribile di Donald Trump, e pure i disperati di casa nostra.

Come ripartenza, per la Processione può bastare così. Sentivamo la mancanza di queste fascinazioni e ci accingiamo a serbarle gelosamente dentro di noi. Ora servirebbe qualcosa di nuovo. La dozzina di brani che Jenkins confida di avere da parte, e un Tobias tornato finalmente e completamente alla musica, ci fanno a ragione sperare che non resteremo troppo a lungo senza il prossimo capitolo di questo formidabile romanzo noir.