27/10/2017

Dream Syndicate

Locomotiv, Bologna


È comprensibile lo stupore con cui i Dream Syndicate sembrano porsi la domanda chatwiniana che intitola il loro ultimo, strepitoso album: cosa ci fanno qui, in un'epoca che pare guardare da tutt'altra parte? Cosa può esserci di più anacronistico delle loro polverose cavalcate elettriche e delle loro metafore occhieggianti ai miti della frontiera? Eppure, la traccia che hanno lasciato (loro, come del resto tutta quell’irripetibile cometa acida che è stato il Paisley Underground) è profonda e incancellabile: lo dimostrano lo stuolo di epigoni tra le nuove generazioni, l’accoglienza trionfale che ha accompagnato il loro ritorno discografico e il sold-out annunciato del concerto di questa sera. La verità è che Steve Wynn & soci sono sempre andati controcorrente: nei primi anni 80 a infuriare erano la new wave e l’hardcore, certo non la loro psichedelia allucinata. Ed è proprio la coerenza con cui hanno pervicacemente portato avanti il loro programma, interrottosi per trent'anni e adesso rianimatosi a sorpresa, che i tanti spettatori accorsi al Locomotiv intendono omaggiare con la loro calorosa presenza.

Il locale è traboccante di corpi frementi, l'atmosfera è quella di un grande raduno e la loro epifania sul palco scatena un’ovazione estasiata. Steve appare da subito in splendida forma, sereno e visibilmente compiaciuto dalla risposta entusiastica che sta riscuotendo il suo ritorno sulle scene. Con un sorriso sornione imbraccia la Telecaster e inizia a tratteggiare un giro armonico inequivocabile, creando una tensione da duello presto spazzata via dall’ingresso esplosivo della sezione ritmica di Mark Walton e Dennis Duck insieme al nuovo chitarrista Jason Victor: ad agitarsi tra le pieghe di "Halloween" è il fantasma dei Velvet Underground, che i quattro evocano senza timore a suon di feedback lancinanti, con Steve che a metà canzone sguaina un assolo penetrante come una trivella. Presi bene al punto giusto e supportati da un pubblico sempre più in delirio, pestano duro dall'inizio alla fine con la carica di una band di ragazzini e un interplay da consumati professionisti. Non c'è dubbio: stiamo per assistere a una grande lezione di rock entertainment. Al quartetto si aggiunge il tastierista Chris Cacavas (paisleyano d'acciaio, già con Green On Red e Giant Sand) e la formazione così corroborata attacca due brani dall'ultimo lavoro: "The Circle", un muro di suono che se non fosse così sferragliante potrebbe essere scambiato per un missile shoegaze, e "80 West", introdotta da un basso new wave ma poi cementata in un cannoneggiamento rollingstoniano, tutte e due fustigate dall'isteria chitarristica di Victor.

È poi la volta di un altro evergreen: "Armed With An Empty Gun", tra i diamanti del mitico "The Medicine Show", ennesima dichiarazione d'amore per le suggestioni del vecchio West, con tanto di piano da saloon, batteria imbottita di riverbero e voce filtrata da uno slapback squisitamente retrò.
Segue un'altra bella spremuta del repertorio recente: "Like Mary" è dolce e sognante come una ballata degli Yo La Tengo, "Out Of My Head" un treno merci lanciato a folle velocità da un macchinista in botta da anfe, mentre "Filter Me Through You" è fresca e luminosa come la ritrovata credibilità di questi adorabili cinquantenni, raggiunti nel frattempo dall'ospite Linda Pitmon (moglie del leader) a dar manforte ai cori.
Un arpeggio sconsolato subito incalzato da un viscerale affondo di chitarra solista, e il risultato non può che essere "Burn", affresco quasi springsteeniano, sofferta parabola di provinciali perdenti ma in qualche modo ancora vogliosi di riscatto, narrata con respiro cinematografico. Ancora tanto lirismo nelle atmosfere southern di "Whatever You Please", introdotta da un ispirato pianoforte e cantata da Steve con grande trasporto, quasi la stesse dedicando in diretta alla persona per cui la scrisse.

Il pubblico è ormai sciolto in un singalong sguaiato, ma loro hanno in mente altri programmi: "The Medicine Show", a metà tra il Dylan di "Memphis Blues Again" e il Cave di "The Carny", è una torrida traversata del deserto strafatti di peyote, un arrancare sbandando che sembra non terminare mai, trascinati da un basso implacabile mentre la realtà perde via via consistenza tra chitarre imbizzarrite e cori sciamanici. Il momento è propizio per sfoderare il pezzo da novanta e stenderci una volta per tutte: nella smisurata jam di "How Did I Find Myself Here?" sembra di ascoltare il Neil Young più luciferino, le chitarre ad azzuffarsi in un parapiglia scombinato, mezza storia del rock passata in rassegna con nonchalance e un ritornello che si trasforma ogni volta in un boato da stadio.
Il termometro emotivo sta per scoppiare, c'è bisogno di far sbollire il motore: il jangle-rock da vento nei capelli di "Forest For The Trees" torna utile a noi per riprendere fiato e a Steve per presentare la sua banda di scalmanati. Ma guai a rilassarsi troppo, perché in agguato c'è già una "That's What You Always Say" percossa da brividi dark figli degli anni in cui fu composta, a riportarci sui binari di una nevrosi strisciante che ha presto modo di deragliare in uno dei momenti più attesi della serata: "The Days Of Wine And Roses", title track del loro indimenticabile esordio, ci sfianca in un galoppo forsennato degno dei Gun Club, interrotto solo da un selvatico ponte percussivo alla Bo Diddley e da un provocatorio mezzo minuto di silenzio, carico di un'attesa quasi messianica. Pochi brani possono eguagliare l'essenza diabolica di questa micidiale corsa a perdifiato, con cui si chiude magistralmente il primo set.

La tempesta di sabbia scatenata finora è stata così entusiasmante che sarei già più che soddisfatto, ma le munizioni sono ben lungi dall'esaurirsi: la band torna subito alla carica tuffandosi nel sogno ad occhi aperti di "Glide", il brano che i Jesus and Mary Chain avrebbero sempre voluto scrivere, i cui versi capricciosi paiono un verosimile autoritratto di questi eterni Peter Pan del rock a stelle&strisce ("Tethered by reality for so many years/ I'm flying high and not ready to touch the ground/I just glide/I may never get higher/ I don't have to come down"). Brusco cambio d'atmosfera con il mood est-europeo di "My Old Haunts", decisamente uno dei brani più atipici del loro repertorio, per poi tornare in picchiata su lidi più classicamente wynniani con una "When You Smile" tossica e indolente come un pomeriggio d'estate chiusi in casa a far nulla.
Ora che ci hanno riportati alla giusta temperatura, siamo pronti per quello che è forse il momento più emozionante di tutto il concerto: l'anthem "Boston", più volte reclamato dalle platea, è un'eloquente summa della poetica dei Dream Syndicate, amara ma mai davvero rassegnata, che il gruppo rende ancora più toccante costruendo un imprevedibile medley con "Refugee", sentito omaggio a un Tom Petty che ci manca ogni giorno di più. Tutti cantano a squarciagola i ritornelli dell'una e dell'altra come se si trattasse della stessa canzone, manco il coup de théâtre fosse stato concordato. La commozione è generale, diluita in un impetuoso torrente di adrenalina: il clima ideale per congedarsi col botto.

Un secondo bis non era scontato, ma facciamo tanto di quel baccano che si lasciano convincere volentieri, prendendoci per la gola con uno dei riff più sghembi degli anni 80: "John Coltrane Stereo Blues" è La jam dei Dream Syndicate, un'orgia alla Doors durante la quale può succedere potenzialmente qualsiasi cosa, con Steve impareggiabile istrione che gigioneggia a oltranza negli scambi chitarristici con Victor e lascia cantare al pubblico l'ipnotico refrain finale. C'è chi, non sapendo più come sfogare l'elettricità in circolo, ha iniziato a ballare. Deliziati dall'accoglienza ricevuta, i nostri eroi si decidono una volta per tutte a calare il sipario, ma non ad andare a dormire: chi non ne ha ancora abbastanza li troverà infatti al banchetto dei dischi, armati fino ai denti di pazienza nell'assecondare le mille richieste dei fan (per la cronaca: me ne sono andato che erano quasi le 2 di notte, e Steve era ancora lì a stringere mani, firmare autografi e mettersi in posa per l'ennesima foto ricordo, con un imperturbabile sorriso sulle labbra...).

Era da tempo che non assistevo a un concerto così mozzafiato, con pubblico e band costantemente sintonizzati, i primi a spellarsi le mani/lacerarsi le corde vocali e i secondi, di rimando, a non risparmiarsi alzando a mano a mano la posta, in un circolo virtuoso di grande intensità. La musica dei Dream Syndicate non è certo spensierata, ma è suonata con una tale energia e passione da non poter lasciare indifferenti. Non deve essere stato facile per i fonici del locale tenere a bada il mix, concentrato su un range di frequenze medio-alte particolarmente difficili da gestire, ma nel complesso anche sul fronte tecnico è stata un'esibizione di alto livello. Belli anche, pur nella loro essenzialità, gli sfondi monocromatici proiettati alle spalle dei musicisti. Me ne torno a casa felice come dopo un primo appuntamento andato a segno, ancora scosso dai fremiti elettrizzanti di una musica che ha messo d'accordo almeno tre generazioni.

"I keep having the same dream/ It's a beautiful dream", cantavano su "Kendra's Dream", il brano-capolavoro in chiusura di "How Did I Find Myself Here?": come non essere d'accordo. Non sappiamo cosa ci facciano ancora qui i Dream Syndicate, ma siamo contenti che questo bellissimo sogno non voglia saperne di concludersi.