08/12/17

Giorgio Poi

Supersonic, Foligno


di Federico Piccioni
Giorgio Poi

Succede anche che si dimentichi un’intera frase, Giorgio Poi, mentre canta una canzone di “Fa Niente”. “È la prima volta che mi capita”, dice alla fine del pezzo, quasi a elemosinare un qualche tipo di assoluzione.
Quando sale sul palco del Supersonic, con i suoi lineamenti da ragazzo del nord Europa, Giorgio è solo e ha una chitarra a tracolla sopra un maglione largo. Il locale è un gioiellino in mezzo alla Penisola, dove, per fortuna, si suona ancora buona musica. L'ultima sorpresa di Bomba Dischi apre il concerto con "Paracadute” e la chitarra dev’essere la stessa con cui ha studiato jazz alla Guildhall School di Londra. Già, perché Giorgio Poi la musica l’ha studiata davvero. È un altro ragazzo espatriato, simbolo di una generazione cosmopolita, costretta troppo spesso ad andarsene per assecondare le proprie aspirazioni. È lui stesso a dire che l’Italia, dal suo punto di vista, è una sorta di oasi, un luogo esotico da cui attingere con un approccio distaccato, forse persino più chiaro e ragionato. Lo fa scrivendo canzoni, ma anche suonando quelle degli altri.
Enrico Ruggeri (“Il mare d’inverno”) e Cristiano Malgioglio (“Ancora, ancora, ancora”) vengono reinterpetati con personalità e inseriti in una scaletta piuttosto breve, tipica di chi alle spalle ha solo un album da nove canzoni e mezz'ora di musica.
 
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“L’abbronzatura”, in levare, è una fotografia in bianco e nero di un’estate italiana degli anni 70, nonché il tappeto rosso per una jam session tra il cantautore, Francesco Aprili e Matteo Domenichelli (in ordine: voce, batteria e basso). Chiudere un po' gli occhi significa volare in una spiaggia della costiera adriatica, con la testa a qualche scena insabbiata di Vittorio Gassman e Catherine Spaak, anche se fuori piove e fra quindici giorni è Natale. All’occorrenza, Giorgio Poi, polistrumentista, può pure imboccare un flauto e soffiarci dentro, improvvisando senza destare il ben che minimo stupore tra quelli che hanno imparato a conoscerlo. Le elucubrazioni più lisergiche inducono a pensare che la band abbia fatto grandi abbuffate di Tame Impala e di certa disco psichedelica firmata Madchester. A tratti pare perfino che Mac DeMarco si sia materializzato nella verde Umbria senza un plausibile e spiegabile motivo.
I tre ci sanno fare, reggono il palco e mettono la pulce nell’orecchio di quelli che... "nel panorama italiano indipendente non si trova più un grammo di talento, neanche a pagarlo oro".

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In mezzo alla scaletta, da qualche parte, c’è spazio anche per il nuovo singolo, che si intitola “Il tuo vestito bianco” e che, in realtà, tanto nuovo non è, visto che è stato scritto appena dopo il missaggio del disco. “Il tuo vestito bianco” è Battisti nell’era dello smartphone o semplicemente Giorgio Poi alle prese con una ragazza che si allontana e si avvicina come un pendolo appeso sul filo docile e sottile delle relazioni umane. Lei è bella, ma sciorina una serie di scuse lunga come la lista della spesa: è che quando hai da fare, ti si è rotto il cellulare, stai male e sei in mezzo a una sessione d'esami, farsi sentire è più difficile che toccare il fondo del mare senza una bombola d'ossigeno.

Le più riuscite, ovviamente, se le tiene per il finale. "Acqua minerale" mette in evidenza le abilità ritmiche di Aprili, mentre Poi racconta del labile confine fra il farsi del bene e il farsi del male, fra litigare e fare l'amore. “Tubature”, un po’ surrealista e un po’ didascalica, è un bozzetto che mette insieme Dalì e un qualche pittore realista; “un tuffo dal cuore alla pancia/ mi guardi e ti sbucci un'arancia”: anche quando non dice niente, Giorgio Poi dice abbastanza e, soprattutto, lo fa con la massima sincerità e semplicità, quella di chi una cosa la fa sembrare facile perché è davvero bravo a farla. "Hai visto com'è strana la città?", "Tubature" ha una coda che farebbe sciogliere l'Artico e infatti fa cantare anche la guardarobiera del locale.

Una lunga “Niente di strano” chiude il sipario tra gli applausi. Non che potesse andare diversamente; al Supersonic Giorgio Poi ha soffiato freschezza e ha spruzzato colore. Di ciò che è stato fuori poco importa; lì, dove tutto, invece, sembra resti uguale.

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Contributi fotografici su gentile concessione di Luca Draoli



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