11/07/2017

Mark Lanegan

Eur, Parco Rosati, Roma


C’è un'esplosione di eventi live a Roma in questi giorni, viva l'abbondanza, per carità, ma la totale assenza di coordinamento fra le tante rassegne provoca imbarazzanti sovrapposizioni in grado di nuocere sia ai fan, impossibilitati a seguire tutti i propri beniamini, sia ad artisti e organizzatori, che vedono la platea ridursi perché costretta a eseguire dolorose scelte, spesso anche in termini di portafoglio.
In una sola sera in quattro location diverse, nel raggio di pochi chilometri, si esibiscono Mark Lanegan, Ryan Adams, Devendra Banhart e Michael Chapman. Ebbene, il vecchio lupo di mare Lanegan non ha minimamente sofferto della sovrapposizione, nonostante venga ormai spessissimo da queste parti (è la terza volta negli ultimi quattro anni). Il verdissimo parco Rosati, nel bel mezzo del quartiere Eur, che da anni ospita Fiesta, lo storico festival latino-americano della Capitale, è pieno oltre qualsiasi ragionevole aspettativa.

Alcuni dei musicisti che accompagnano Mark si esibiscono prima di lui come opening act, a certificazione della grande qualità degli artisti di cui ama circondarsi l’ex-leader degli Screaming Trees. Vediamo così sfilare prima Lyenn (con Lanegan sarà al basso), che cattura il pubblico con la semplicità di voce e chitarra, fra ricami grungiati e una voce che si arrampica dalle parti di Jeff Buckley: ottima tecnica e belle canzoni.
Dopo di lui tocca a Duke Garwood (con Lanegan sarà alla chitarra ritmica), una sorta di quarto Pontiak (ma è inglese) che in coppia col proprio batterista si cimenta nel consueto psych-blues, non di rado aperto verso lisergiche digressioni: il recente “Garden Of Ashes” – il suo settimo lavoro, compreso quello condiviso con Lanegan - ha ricevuto buoni apprezzamenti dalla critica musicale, e anche la prova live è superata senza problemi.

Tutto il pubblico è seduto, e quando parte “Death’s Head Tattoo”, il brano che apre anche il recente “Gargoyle”, è subito il tripudio, per onorare la presenza di uno degli ultimi leoni del grunge rimasti fieramente in piedi. Come suo solito, Mark trascorrerà l’intero concerto appoggiato all’asta del microfono, immobile, sorrisi zero, qualche roco “Thank You” disseminato qua e là, ma quella voce di carta vetrata ha sempre la forza catartica di aprirti in due.
L’inizio è trascinante, “The Gravedigger’s Song” e “Riot In My House” sono perfette per creare la giusta atmosfera, e da subito è possibile individuare i due co-protagonisti della serata: il giovane batterista alle spalle di Mark, Jean-Philippe de Gheest, e il chitarrista alla sua destra, Jeff Fielder, di Seattle, che coi suoi ricami e il lavoro certosino fornisce il vero valore aggiunto.

“Nocturne”, la ballabile “Ode To Sad Disco”, che certifica la passione di Mark per i beat electro, le più riflessive “Goodbye To Beauty”, “Harborview Hospital” e “One Hundred Days” saranno fra le vette della setlist, in grado di sopperire alla mancanza di un pezzone come “Grey Goes Black”.
Ma soprattutto dispiace la rinuncia a qualsiasi ripescaggio dal canzoniere degli Screaming Trees, o da quello dei Queens Of The Stone Age, per i quali Lanegan ha prestato la voce in tante occasioni, in favore di una cover dei Twilight Singers dell’amico Greg Dulli (con il quale condivise il progetto Gutter Twins) e di “Love Will Tear Us Apart” dei Joy Division.
Vuole essere l’omaggio finale a una band che evidentemente ha significato molto per lui: l’energica versione del classico darkwave di Ian Curtis viene eseguita prima del congedo dal palco, ma tempo dieci minuti e Lanegan sarà dietro al banchetto del merchandising per foto e autografi di rito, cosa tutt’altro che scontata per un artista del suo calibro.

Non chiedetegli di farvi un sorriso o di scambiare quattro chiacchiere, non ne ha la minima voglia, ma averlo là, potergli stringere la mano e ringraziarlo sentitamente per la disponibilità e per tutto quello che ha scritto fin qui, è un privilegio di cui vale la pena approfittare, per una volta.