
I Red Hot Chili Peppers a Roma sono l’emozione di un concerto storico, perché ogni live dei californiani è, vuoi o non vuoi, un evento segnante. Loro, che hanno raccolto le ceneri di una generazione distrutta dal punk - generazione che in questo non ha mai trovato soluzione - e che l’hanno presa per mano, con una miscela di funk e rock, magari non particolarmente innovativa, ma certamente peculiare e riconoscibile.
Nella sera del ritorno in Italia, le voci del pubblico, che pencolano tra il tragico e il malinconico - a causa della dipartita di Chester Bennington e di qualche fresca dichiarazione che ha lasciato trapelare un po' di stanchezza nei Peperoncini - accompagnano i quattro sul palco dell’Ippodromo per fermare il tempo e illudere tutti, facendo credere loro, per una manciata di attimi, che il tempo non sia mai realmente passato. Con tutti si intende un pubblico eterogeneo e sfaccettato, che punta lo sguardo su una struttura magniloquente, con tre grandi occhi-schermo, che hanno il merito di trasmettere ciò che, per i più distanti, è arduo cogliere senza alcun ausilio.
Tra i più giovani - accorsi anche da luoghi con topomastiche che hanno poco a che vedere con il Lazio - c'è la voglia di dire “c’ero anch’io”; tra i meno giovani il desiderio di rivivere certe sensazioni, certi odori, certi momenti che, in un modo o nell’altro, hanno caratterizzato la post-adolescenza e che hanno avuto come colonna sonora un buon numero di pezzi dei Red Hot Chili Peppers.
Accontentati entrambi. Con i primi è facile come rubare caramelle ai mocciosi; con i secondi, forse, è richiesta qualche attenzione in più, ma i successi più impolverati in scaletta non sono mancati e hanno fatto quello che dovevano. A parte "Scar Tissue", assente ingiustificata, "Around The World", "Californication", "Aeroplane" e "Give It Away", tra cover di Robert Johnson e Stevie Wonder, hanno reso l'aria di Roma ancora più rovente del normale. "Around The World" ha aperto il sipario, l’attacco di "Under The Bridge", con migliaia di cellulari al cielo, è valso tutta la serata e ha compendiato in pochi istanti un'intera carriera.
Josh Klinghoffer se l'è cavata benissimo, anche se per entrare nel cuore dei fedeli ha dovuto aspettare qualche luna in più del previsto. A parte l’evitabile stupro di “Io sono quel che sono” di Mina - suonata e cantata in solitaria, al ritorno sul palco dopo il primo finale - le sei corde si sono rivelate all’altezza del contesto e della storia della band di cui fanno parte. Degli altri - Chad, Flea e Kiedis - è meglio non parlare solo perché superfluo; perfino qualche iniziale scetticismo sull'ultimo da parte di chi scrive si è dovuto eclissare di fronte a un inaspettato controllo e savoir-faire nell'esecuzione.
Quando le luci si sono alzate ed è risuonata “So What” di Miles Davis - geniale modo di accompagnare dolcemente tutti ad auto e navette - si ha avuto l’impressione che per i Red Hot Chili Peppers quello appena conclusosi fosse stato uno show come tutti gli altri. La durata esigua, circa un’ora e mezza, corrobora la tesi. La questione è che, per chi c’è stato, non può che essere bastato. Sono, molto semplicemente, gli effetti miracolosi di un ordinario show di una storica band.
(Foto di Alessandro De Vito)