Metti un San Valentino in compagnia di Anders Trentemøller. Scelta inusuale, d’accordo, ma pienamente azzeccata. Che c’è di romantico nell’appuntamento col lungagnone danese? Anzitutto, per chi si è pasciuto di ombrosità dark fin dall’adolescenza, la convergenza della sacra triade Bauhaus-Cure-Siouxsie, che si materializza in un colpo solo attraverso, rispettivamente, la t-shirt indossata dall’ex-deejay di Vordingborg, le sonorità in odor di “Faith” del suo ultimo album “Fixion” e la voce della sua fidata chanteuse Marie Fisker, che riecheggia da par suo il fervore stregonesco della musa goth londinese. Non bastasse tutto ciò, a rendere imperdibile l’evento, c’è la qualità altissima degli ultimi lavori a firma Trentemøller, che, attraverso una contaminazione con le forme più raffinate dell'indie e della new wave, hanno via via arricchito e sublimato le sue intuizioni iniziali in ambito deep-house e minimal, consacrandolo come uno dei personaggi-chiave dell'elettronica del nuovo millennio.
Le colonne bianche dello Spazio Novecento - all’Eur, il quartiere più avveniristico di Roma – fanno da tempio ideale a questa liturgia elettro-dark, attesa da circa un migliaio di persone, un pubblico imprevedibilmente numeroso, se si pensa che è, per l’appunto, la Festa degli innamorati, nonché una serata infrasettimanale, oltre al fatto che lo show è stato ben poco reclamizzato. Forse il merito è della fama acquisita dal musicista danese in questo biennio, grazie agli ultimi due bellissimi album (“Lost” e “Fixion”), forse anche di un costo dei biglietti (17 euro) finalmente più che allettante per un concerto. Fatto sta che la nuova mecca dell’elettronica della Capitale è gremita fin dalle 21.30, quando prende il via dj-set introduttivo a cura – letteralmente - di Tom and His Computer. Il barbuto dj e producer di Copenhagen, all'anagrafe Thomas Bertelsen, s’impossessa della scena per tre quarti d’ora, snocciolando alla console il suo potente mix di elettronica, chitarre lo-fi, sonorità e ambienti cinematografici. Pezzi elettrizzanti come “Girl A Go-Go” e “Eighty Four” sono il carburante ideale per alimentare l'attesa dell'attrazione principale.
Alle 22.30 Trentemøller irrompe in scena, con la suddetta maglietta gothic-chic sotto la giacca nera. Ad accompagnarlo sul palco quattro rodati compagni d’avventura, tra cui, per l'appunto, Marie Fisker alla voce, pronti a destreggiarsi tra basso, chitarra, batteria e vari synth. Un organico di forte impatto, valorizzato dal lavoro mirato su luci, visuals e design del palco, a cura dell’artista svedese Andreas Ermenius, già autore dell’artwork di “Fixion” e regista dei videoclip di tutti e tre i singoli estratti. È un'ovazione ad accogliere la splendida “November”, partenza a razzo del concerto che trasforma uno dei brani di punta di “Fixion” in una claustrofobica celebrazione post-punk: opprimente e angosciosa quanto basta, ma carica di adrenalina nelle vene.
Le casse ad altezza uomo sono un'istigazione alla danza, con i beat tonanti che entrano nello stomaco; restano basse, invece, le luci sul palco, dove le sagome chiaroscurali si muovono in penombra, mentre si colorano al neon i drappeggi bianchi della sala. L'attenzione, così, è quasi tutta per la musica. Quella di Fixion”, anzitutto, che verrà eseguito quasi interamente: un excursus lungo l'ultima frontiera dell'artista danese, che spazia da vortici spettrali di loop alle foreste paranoiche dei Cure (con chitarre che più Smith-iane non si può), da linee di basso cavernose alla Joy Division a un electro-rock secco, tagliente, ipnotico, per approdare infine alla cassa dritta.
In questa apoteosi di sintetizzatori e sequencer magistralmente dominati da Trentemøller, sempre a un passo dalle lande spettrali di “Faith” (“Never Fade”), si incunea l’ugola suggestiva e profonda della Fisker, capace di nobilitare le melodie umbratili di “One Eye Open” e “Redefine” e di assecondare con malia siouxsiana la pioggia (acida) di beat e le sinuosità ipnotiche di “My Conviction” e “River In Me”, mentre l’allampanato musicista danese si esalta, ciuffo calato sulla fronte e tamburello alla mano, incitando il pubblico, aggrappandosi sulle casse e scendendo tra gli spettatori, sempre più entusiasti.
C’è spazio anche per qualcosa (poco, purtroppo) dal penultimo “Lost”, che per chi scrive resta il suo capolavoro: una “Trails” che si snoda minacciosa con la sua intensità sincopata, o la prova di forza muscolare di “Still On Fire”, con il suo incedere da marcia metallica.
Il finale è per l’amarcord dei primi successi: ecco allora ridestarsi il palpito malinconico di “Shades Of Marble” (tratta da “Into The Great Wide Yonder” del 2010 e scelta anche da Pedro Almodóvar per la colonna sonora di “La pelle che abito”), le effusioni tiepide e glaciali al contempo di “Miss You” (resa celebre dal mix di “Teardrop” con i Massive Attack), la linearità magnetica di “Vamp” e dell’altra perla ripescata dal debutto “The Last Resort”, la catartica “Moan”, posta in coda del set, prima degli encore. A chiudere invece il concerto, suggellando così idealmente la metamorfosi del dj-musicista, sarà la traccia iniziale del suo primo album: “Take Me Into Your Skin”: il trapianto, il cambio di pelle è perfettamente riuscito. Non c’è dubbio, infatti, che questo “Fixion Tour” sancisca il passaggio definitivo di Trentemøller dalla dimensione del dj-set a quella del live-set. Ciò che prima poteva apparire come un azzardo, un tentativo di trasformazione innaturale, oggi risplende come il frutto maturo di una riuscita evoluzione artistica. Contraddicendo il celebre verso di David Bowie, verrebbe da dire: “I am (not) a DJ, I am what I play”.