Nel contesto del cortile interno del giardino del Casalone, il Covo Club ha allestito una bella location per una serie di concerti, perfetto compendio di una stagione di eventi durante tutto l'inverno. L'organizzazione non poteva concludere in modo migliore questa rassegna estiva, chiamando per la quarta volta a Bologna gli scozzesi Arab Strap. Band simbolo di un certo periodo di musica indipendente fra vecchio e nuovo millennio, Malcolm Middleton e Aidan Moffat mettono nuovamente insieme una formazione live a circa dieci anni dal loro abbandono delle scene, pubblicando per l'occasione un doppio omonimo contente rarità e vari pezzi mai realizzati su album, un po' come fu fatto nel 2006 con l'album commemorativo "Ten Years Of Tears" e con un tour che toccò anche in quel caso Bologna.
La formazione, oltre ad Aidan e Malcolm, comprende un batterista, un bassista, la violinista Jenny Reeve (già nei The Reindeer Section) e un tastierista. Un fortissimo senso di déjà vu e una sorta di fitta malinconica coglie gli ascoltatori all'attacco di "Stink", brano di apertura del loro ultimo album in studio "The Last Romance". Tutta la forza sommessa, implosa e frustrata della musica del duo inglese torna improvvisamente come se non fosse mai completamente sparita.
Si prosegue con le sferragliate al limite della cacofonia della stridente "Fucking Little Bastards", proveniente dal bellissimo "Monday At The Hugh & Pint" - a parere di chi scrive il miglior album pubblicato dal duo - proseguendo ancora con lo spoken word di "Girls Of Summer". Già da questi prime esecuzioni, si nota l'adorabile chimica che c'è fra i due, stona sul palco l'accostamento fra l'impeccabile e straordinariamente talentuoso chitarrista che è Middleton e l'atteggiamento da guascone avvinacciato che ha sempre avuto Moffat, cantore della normalità e dei sentimenti terreni. La forza di questa musica sta tutta qui: il contrasto fra la forma a tratti dissonante e violenta, in altri episodi dolce e cullante, e la sostanza fatta di storie di cazzi, fighe, desolazione e sbornie.
Trovano posto in circa due ore di musica le più note canzoni del duo, prima fra tutte la splendida "The First Big Weekend" - uno dei rari casi in cui Malcolm canta - passando per la struggente melodia chitarristica di "Don't Ask Me To Dance", fino alla sublimazione di "The Shy Retirer", un electro-pop arioso e puntellato da flussi di chitarra e violino impeccabili. Sempre sulla scia più elettronica della produzione della formazione anglosassone si fanno spazio "Rocket, Take Your Turn" - ossessivamente sostenuta da un giro di drum-machine in 4/4 – "Scenery" e "Turbulence". La versione più scheletrica e prettamente cantautoriale viene fuori in "New Birds" e "Blood", due episodi estratti rispettivamente da "Philophobia" e "Mad For Sadness", dove Moffat recita i suo testi come in un confessionale sostenuto da pochi accordi di chitarra e qualche pattern di batteria.
In conclusione, non smettono mai di emozionare alcuni classici come "Speed Date", "Here We Go", "Piglet" e "Soaps", tutte e quattro canzoni significative all'interno della carriera decennale di una band tanto controversa e indecifrabile quanto unica e indistinguibile in mezzo ad altre mille.
Non resta che plaudere agli sforzi fatti dal team del Covo Club per aver riportato a Bologna dopo quasi undici anni la formazione scozzese, augurandoci che questo tour sia solo l'inizio di un percorso che possa portare a un nuovo album a distanza di dodici anni da "The Last Romance".
(Alessandro Biancalana)
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Un autentico "colpaccio", quello del Covo: non era scontato riuscire ad aggiudicarsi una seconda data italiana (quella già annunciata era la partecipazione alla terza giornata del Siren Festival) da una band così sfuggente, seppur in vena di autocelebrazioni. Evidentemente, Aidan Moffat e Malcom Middleton non sono i glaciali misantropi che mi sono sempre immaginato: e qualora non bastasse questa inattesa reunion a dieci anni dallo scioglimento, ci penserà la serata in esame a confermarmelo.
D’altronde, è arduo arrischiare ipotesi su chi siano gli Arab Strap, se già sotto il profilo musicale la loro collocazione è problematica: un dream pop in cui c’è ben poco da sognare? un post-rock a cui viene negata ogni tentazione cosmica? uno slowcore tecnologicamente evoluto? Una sola certezza: gli Arab Strap sono scozzesi, e le brume torbate di quella magica terra sembrano addensarsi così pesantemente sulle loro note da diventare l’unica chiave interpretativa davvero incontestabile.
Quasi a voler subito dar credito a questo assioma tanto lirico quanto vago, la serata viene aperta in maniera bozzettistica da un assordante ragliare di cornamuse, sottofondo parodistico che accompagna il disporsi dei sei musici, sospinti da un boato di approvazione degno delle rockstar che non sono mai stati. E sarà il potere della suggestione, ma anche l’impatto visivo risulta a suo modo celtico, tra le chiome fulve di Middleton e della schiva violinista e l’imponente presenza scenica di Moffat, fauno silvano dal vestiario a dir poco casual.
Senza spiccicare mezza parola, si aprono le danze con i melodrammatici sussulti dark di "Stink", che detta subito le coordinate del concerto: volumi alti, esecuzioni compatte e suoni algidamente digitali, più post-punk che post-rock. Viene inaugurato anche un altro leitmotiv della serata, ovvero il noto amore di Moffat per la birra: ne scolerà in media una lattina ogni due canzoni...
Tutt’altra atmosfera si respira nella torva marcia industriale di "Fucking Little Bastards", che nei crescendo tra le strofe si gonfia come una nuvola temporalesca per poi stemperarsi nelle ispirate stilettate del violino. Sulla stessa falsariga la lunga "Girls Of Summer", arabstrapiana all’ennesima potenza nella sua combinazione di tessiture chitarristiche e verniciature elettroniche su cui si libra il recitato rantolante del leader, che nelle parentesi strumentali pseudo-shoegaze è affaccendato pure con Microkorg e sampler percussivi prima della deriva ossessiva del finale. Vive una schizofrenia simile anche "Rocket, Take Your Turn", che accoppia una pulsazione quasi dance con uno scheletrico arpeggio di chitarra e una voce così angosciata da mettere a disagio, violino e sintetizzatore a dispensare scure pennellate nelle retrovie.
"Scenery", con il suo imperturbabile giro di basso imprevedibilmente infiorettato di edera folkeggiante, è una gemma di suggestione che funge da ideale introduzione al raffreddato romanticismo di "Don’t Ask Me To Dance", tra i loro brani più riconoscibili, difatti salutato con entusiasmo dal pubblico. L’anemico borbottare di "Blood" sta tra i Low e i Christian Death ed è tenuto al guinzaglio con un tale rigore da esasperare, salvo poi essere lasciato libero a sorpresa nell’ultimo, detonante minuto. Tutto il contrario di "The Shy Retirer", che fila dritto dall’inizio alla fine sul suo autistico binario di drum machine.
Similare il modulo seguente: se "New Birds", vergata su una splendida pergamena bassistica, rimane accartocciata in un involuto monologare prima d’impennarsi in un anthemico decollo alt rock, l’elettronica decadente di "Turbolence" non si scompone nel suo sadico giocare d’implosione, sprigionando l’energia di un corteo funebre. Nulla, però, in confronto alla litania sepolcrale della successiva "Piglet", che si trascina con la fatica di un moribondo nella sinistra indifferenza degli strumenti, forse il momento più sofferto della scaletta.
Dopo una simile discesa all’inferno c’è bisogno di un tonico, e da questo punto di vista il noise pop di "Speed-Date" è il massimo della spensieratezza che ci si può aspettare dagli Arab Strap, prima che lo spietato Moffat strangoli il coito al culmine dell’intensità soffiando in uno stridente fischietto da arbitro: ci stiamo divertendo troppo, tutti ammoniti! E tanto per infliggerci una punizione supplementare, ci viene comunicato che la prossima canzone sarà l’ultima: il frontman tira fuori dalla tasca un fogliaccio fingendo di dover leggere un discorso, e invece parte a tutta birra "The First Big Weekend", altro atteso classico del loro repertorio, con la platea scatenata a intonare il celebre verso "Went out for the weekend, it lasted forever/High with our friends it’s officially summer" e un fan particolarmente esagitato a cui viene concesso il privilegio di urlarlo dritto nel microfono. Moffat sembra preso benissimo, ma una promessa è una promessa: dopo aver lanciato il foglio di cui sopra ad uno spettatore, richiama la sua armata e si ritira dietro le quinte.
Il pubblico fa tanto di quel baccano che la compagine riappare senza farsi troppo pregare, con l’aria di chi nemmeno ci prova a prendersi troppo sul serio.
“'Last Orders!'”, reclama a squarciagola qualcuno: e non sarebbe un cattivo suggerimento, data la scarsa attenzione finora riservata ai brani da "The Red Thread", il capolavoro della band datato 2001. Moffat finge di prendere in considerazione l’ipotesi, ma poi come se niente fosse attacca una comunque gradita, atmosferica "Here We Go". Un divertito sfottò al chitarrista che si attarda con l’accordatura, un’improbabile dedica ad una spettatrice e poi la caveiana "Soaps" a sigillare definitivamente l’esibizione, non prima di aver elargito una manciata di scalette spiegazzate alle prime file (una riesco ad accaparrarmela io).
A conti fatti, una performance che ha puntato ad enfatizzare il lato gotico e marziale della loro musica, a discapito di quello più intimista e quasi cantautorale che ne è la peculiare controparte. Una formula che ha senz’altro giovato un po’ a tutti i brani sul fronte della potenza (fattore tutt’altro che secondario in un live), ma che a tratti ha anche appiattito i suoni e privato alcune canzoni di quell’evanescenza diafana così appropriata per dare corpo agli psicodrammi del leader: non si può avere tutto, d’altronde.
La vera sorpresa è stato però l’atteggiamento di Moffat, tramandato dalla vulgata come un personaggio tragico e invece piuttosto rilassato e (auto)ironico nel dispiegare il suo innegabile carisma, sempre molto comunicativo con un pubblico con cui è riuscito a instaurare un rapporto di intensa empatia, al punto da avventurarsi più di una volta sopra il subwoofer per abbattere le distanze con i suoi affezionati devoti. Perché in fondo quello degli Arab Strap è sempre stato un piccolo culto pagano, e la cospicua partecipazione a questa serata non può che certificarne la fedeltà.
Quanto a me, mi riavvio verso casa, chiedendomi se fuori dal locale troverò ad attendermi la solita periferia bolognese o qualche lago avvolto dalla nebbia…
(Ossydiana Speri)