05/05/2018

Godflesh

Freakout, Bologna


Justin Broadrick appartiene senz’altro a quella selezionata genia di musicisti rock la cui opera, per ambizione e visionarietà, rivaleggia con la musica "seria". Dagli esordi terroristici con i Napalm Death al più rassicurante approdo nei Jesu passando per le innumerevoli collaborazioni (da John Zorn a Mark Kozelek) e, ovviamente, quella spaventosa creatura chiamata Godflesh, la sua ricerca è un viaggio oltre le Colonne d'Ercole dell'Estremo, accompagnata da una sconsolata riflessione sulla miseria della condizione umana. Moderno Doktor Faust, bramoso di spezzare limiti e plasmare universi, il musicista di Birmingham (Babele post-industriale da cui ha tratto profonda ispirazione) merita di essere annoverato tra i compositori definitivi del secolo. E' proprio alla luce di queste considerazioni che fatico a comprendere l'esaltazione generale per l'ultimo "Post Self", concept nietzscheiano salutato come un ritorno all'ispirazione dei giorni migliori, che io ho invece trovato una stanca riproposizione di cliché pescati a varie latitudini del suo mappamondo: un'opera che colpirebbe nelle mani di un esordiente, ma delude in quelle di un Maestro. Tuttavia, a Justin non si può non voler bene, specie se si è stati testimoni dell'onda d'urto che riesce a scatenare dal vivo: decido, pertanto, di dare il mio contributo al sold out annunciato di questa data bolognese.

Aprono i Syk, quartetto che combina un tempestoso metalcore con sonorità industrial e una voce femminile vagamente goth, un po' confuso ma suonato con grande vigore. Il cambio palco si rivela impegnativo, tra la necessità di smontare l'intera batteria (a cui i Nostri sono notoriamente allergici) e l’estenuante soundcheck del duo, che sul fronte estetico presenta una conferma e una sorpresa: se il bassista G. C. Green rimane fedele al suo look da metalmeccanico in cassa integrazione, Justin si è fatto crescere i capelli in un caschetto spettinato che, se possibile, ne accentua la fisionomia psicotica. 

Armato della sua fida Blakhart a sette corde e con uno strategico laptop a portata di mano, introduce la messa con un celestiale bordone di chitarra ambientale che presto precipita nel basso radioattivo di "Gift From Heaven", che, a dispetto del titolo, pare piuttosto un rigurgito lavico dai recessi dell'Inferno. Un tagliente cembalo sintetico scandisce la martellante "Messiah", che prosegue l'antifrastica metafora religiosa invocando un salvatore il cui avvento appare tra i meno auspicabili per il genere umano. Segue il doom monocromatico di "Merciless", la cui programmatica "spietatezza" si configura come un verosimile bignami della Godflesh-sofia, specie nell'arpeggio chiodato del bridge. La voce è echeggiata da un delay che la trasforma in un coro di dannati suppliziati, mentre nei brani precedenti era pressoché pulita (cosa piuttosto insolita per lui). La lunga e abrasiva "Mantra", che tra le sberle del basso e i cazzotti della chitarra potrebbe essere la sonorizzazione di un film muto ambientato in un cantiere, chiude questo asfissiante collage di brani disseminati tra vari Ep.

Dopo una rapida riaccordatura dai riverberi spaziali, si giunge al repertorio recente eseguendo una di fila all'altra le prime cinque tracce di "Post Self": la title track è un siderurgico pow wow che procede a strappi, la voce a latrare carica di odio verso tutto e tutti sopra la bufera tossica della chitarra. Più concitata la cavalcata cyberpunk di "Parasite", con batteria Ebm e cantato in growl, mentre "No Body" è una pressa ossessiva sopra una base acida come un liquame di scarico. Nella torva danza tribale di "Mirror Of Finite Light", colonna sonora di un sacrificio scandito da gong elettronici, gli strumenti ricordano onde che si infrangono contro gli scogli; tutto l’opposto dell'immoto lago di vetro e acciaio di "Be God", il suono di una battaglia tra barbari assetati di sangue, con quegli accordi finali sgranati a tradire il lato melanconico di questo rassegnato profeta dell’Apocalisse. I brani confluiscono gli uni dentro gli altri in maniera quasi indistinta, creando una torrenziale alluvione di fango e detriti.

Per concludere, due regalini allo zoccolo duro: il graffiante canto di guerra alieno "Spinebender", dal primissimo Ep omonimo dell'88, e "Head Dirt", unica concessione dal sommo capolavoro "Streetcleaner", pura carne umana arrostita sopra un braciere di flanger distorti, comete di chitarra impallinate dal cannoneggiamento serrato del basso prima di un denso maremoto quasi shoegaze. Di bis neanche a parlarne, e bisognerebbe essere alquanto masochisti per voler prolungare un simile strazio (filosofico e spirituale ancor prima che uditivo). Mi affaccio sul palco per sbirciare l'equipaggiamento, stupendomi nel constatarne la relativa essenzialità: Broadrick oltre al computer usa sei pedalini di marche blasonate (per lo più Electro-Harmonix), mentre Green si accontenta di un semplice distorsore Boss. A sorpresa, i due spuntano poco dopo dai camerini prestandosi a foto, autografi e vendita di merchandise, dando prova di una personalità rilassata che contrasta con la bestialità della loro arte.

Inumana nella sua meccanica inesorabilità, la musica dei Godflesh riesce a toccare fondi di mostruosità così insostenibili da assolvere una provvidenziale funzione catartica, purificandoci dai nostri peccati dopo averceli ritorti contro al quadruplo della violenza. E se continuo a pensare che l'ultima prova discografica non aggiunga nulla allo spessore della vicenda, la potenza di ogni performance giustifica abbondantemente la riesumazione della sigla.
Mi incammino verso casa con la fantasia ancora suggestionata dai truculenti affreschi broadrickiani, al punto che attorno a me scorgo solo palazzi in fiamme, pile di cadaveri ammassati e patiboli ostentanti carne fresca…