17/07/2018

Iron Maiden

Piazza dell'Unità D'Italia, Trieste


Un carrozzone mediatico, una carnevalata da poser, puro marketing a capo di sei cariatidi. Gli appellativi spregiativi dedicati a ciò che è oggi la Vergine di Ferro si sprecano in occasione di ogni apparizione italica.
Non è in effetti un segreto che le leggende della NWOBHM, dopo un primo decennio degno di Re Mida, abbiano faticato non poco a proporre qualcosa di degno dei tempi che furono negli anni successivi. Sarà fisiologica crisi creativa o probabilmente la mancanza di stimoli, perché il mostruoso Eddie The Head ha comunque continuato a esercitare grande fascino nelle nuove generazioni di metalheads, pur mantenendo una significativa fetta della vecchia fanbase. Nel 2018 il nome Iron Maiden resta di primo livello quando si parla di heavy metal nel senso più classico del termine.

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Il risultato - nella magnifica Piazza dell’Unità d’Italia di Trieste, un luogo infinitamente più prestigioso dei soliti prati e ippodromi di ordinanza - è una venue gremita di fan di ogni età che vanno dai bambini con tanto di paraorecchie, ai trentenni figli di “Fear Of The Dark”; dai nostalgici di “Piece Of Mind” a qualche vecchia volpe probabilmente memore delle polveriere degli eighties con Paul Di’Anno.
Il meteo è clemente, grazie a una discreta pioggerella pomeridiana, lasciando al mare - spettatore silenzioso alle spalle della folla accorsa - la restante opera mitigatrice. A far crescere l’attesa le band di supporto che accompagnano il pomeriggio, con sconcertante puntualità rispetto al programma annunciato: The Raven Age, prodotto della progenie del buon Steve Harris, gli autoctoni Rhapsody of Fire con il loro power metal fiabesco (i trentenni di cui sopra se li ricorderanno bene) e il roccioso thrash di Mark Tremonti a chiudere il preambolo.

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Poi tocca a loro, alla corazzata albionica headliner della serata: Winston Churchill introduce il suo “we shall fight on the beaches” e un enorme aeroplano della Raf inizia a librarsi alto sul palco. “Aces High” si gioca già buona parte degli assi della band: la partenza con il botto, l’ostentata e fiera pacchianeria che fa da spettacolo nello spettacolo e un Bruce Dickinson che se ne frega di preservare la voce per i successivi 120 minuti, strizzando subito le sue corde vocali (che compiranno la bellezza di 60 anni il prossimo 7 agosto).
Le scenografie si alternano dopo ogni brano, sotto forma di enormi sfondi che scorrono accolti da ovazioni rumorose. La setlist sembra seguire un filo conduttore: la guerra viene raccontata dall’esaltante smitragliata di “Were Eagles Dare”, da “The Trooper” accompagnata dall’immancabile pupazzone di Eddie in divisa, fino a “The Clansman”. Quest’ultima, sebbene sia uno dei pochi brani appena più che mediocri usciti dal tragico flop che fu “Virtual XI”, guadagna qualcosa dal vivo e il suo coro da stadio è curiosamente accolto con eccezionale entusiasmo dalla folla.

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Il tema dei fondamentalismi religiosi subentra nell’atto centrale della serata, tra classici come “Revelations” a brani acclamati pur nati nel mezzo di produzioni non esaltanti come “The Greater Good of God”. Ma lo zenith della serata arriva da lì a poco. Prima “The Sign Of The Cross”: il maestoso e solenne tributo a “Il Nome della Rosa” dal vivo è un incendio che avvolge il palco di fiamme e visioni demoniache. La sua versione dal vivo è talmente convincente da far crescere il rammarico per quel che sarebbe potuto essere un esperimento riuscito, ovvero il tetro e opprimente “X Factor”, disco ben ideato nel concetto ma scarsamente riuscito nei fatti dell'epoca. Molto del merito di questa rinascita va sicuramente identificato nell’estensione vocale di Dickinson, ben superiore a quella dello sfortunato interprete dell’epoca Blaze Bailey (sebbene scevra del timbro tenebroso di quest’ultimo).
Poi, il brano che i più esperti aspettavano da una vita, la “The Flight Of Icarus” attesa live da più di 30 anni, introdotta da un enorme Icaro proteso verso il cielo, con il buon Bruce che gioca sadico a tormentarlo con i lanciafiamme.

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Da qui fino alla fine il male e l’oscurità dominano i testi della scaletta rimanente. Gli anni passano, ma i Maiden si divertono come matti e sembrano addirittura più in palla oggi di quella volta tra il cemento bollente del Sonisphere 2013 di Rho, pur con 5 anni in più sul groppone. Se allora qualche fisiologica frenata aveva trattenuto le corde del patron Steve Harris o le pelli di Nicko, stavolta il set viene chiuso brutalmente e a tutta velocità con le classicissime: l’obbligatoria “The Number of The Beast” e una cattivissima “Iron Maiden”, dove il trio chitarristico formato da Murray, Smith e Gers sputa fuori il suo velenoso e indimenticabile riff in crescendo, mentre viene issata sul palco una gargantuesca testa di demonio. Che esagerati questi sei inglesi.

 

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Il bis finale è un tripudio continuo, un po’ meno per la voce di Dickinson che inizia ad annaspare ma si fa forte della scontata partecipazione del pubblico: “Hallowed By The Name” e, soprattutto, la cavalcata “Run To The Hills” vengono urlate a memoria dai presenti, tanto che quei capelloni sul palco potrebbero anche far finta di suonare se volessero.

Un concerto degli Iron Maiden è un mix di nostalgia e tradizione che va avanti da decenni e non accenna a perdere efficacia. Chi era allergico a questo contorno nerd/goliardico dal sapore ottantiano non cambierà certo idea, ma dovrà farsene finalmente una ragione.
Un aspetto negativo di questa serata riuscita? Cosa sarebbe stata questa scaletta comprendendo anche un paio di brani di quel (finalmente!) riuscito lavoro che è stato l’ultimo full-length degli Irons? Ma a questo giro la parola d’ordine era “revival”, quindi inutile recriminare.
Sarà per la prossima volta; e speriamo che anche il futuro disco nascituro sarà degno di quel “Book of Souls” che molti dei nostalgici dei bei tempi che furono ha riavvicinato a Harris e soci. Sì, compreso chi scrive.

(Foto su gentile concessione di Simone di Luca)