23/11/2018

Joan Of Arc

Metropolis, Umbertide


di Federico Piccioni
Joan Of Arc

È possibile spiegare i Joan Of Arc? Per lo zero kelvin descrittivo sono una donna e tre uomini; la donna si chiama Melina Ausikatis ed entra sul palco del Metropolis di Umbertide con una chitarra a tracolla che non ha corde, solo manico e corpo. Praticamente un’ape senza pungiglione o un uccello che non sa volare. Melina attacca a cappella, con la voce di una bambina di dieci anni, simile a quella disegnata nella copertina del loro ultimo album (“1984”). Insieme al batterista e al bassista fanno tre cappellini in un locale chiuso, alle undici di sera. Il secondo è lungo e slavato, come il suo strumento; il primo basso e robusto, con le bacchette in mano, gli occhiali da sole e una maglietta attillata. Pare un elettore di Trump appena uscito da un film d’azione americano, anche se i Joan of Arc ci tengono a mettere in chiaro le cose. Il bello di essere in Italia, stasera, è che non devono essere negli States per la Festa del Ringraziamento. Tim Kinsella parla a nome di tutti e lo può fare. Leader della band e fratello di quel Kinsella che con gli American Football, nel 1999, spaccò in due il midwest emo, partorendo con “Never Meant” un riff sempiterno, capace di estrarre il succo agrodolce dal frutto della malinconia.

La chitarra di Kinsella suona, staglia accordi aperti e sospesi, vagamente jazzy, su un tappeto ritmico che il forsennato e pulitissimo Theo Kastaounis distende con zelo e potenza. Sono due facce di una stessa medaglia e probabilmente la rappresentazione dei due elementi che governano il cosmo: ordine e disordine. “There’s no place safe and everything is perfect”, canta Kinsella, e come dargli torto? La musica dei Joan of Arc è questo, da studio come dal vivo. Nel disordine fluttuano le melodie post-rock ed emo-core, nell’ordine il suddividersi e il moltiplicarsi aritmetico del math-rock.

Passa quasi un’ora prima che il flusso si interrompa e il pubblico tributi il primo applauso al gruppo di Chicago. “Grange Hex Stream”, “This Must Be The Placenta”, “Vermont Girl”, “Psy-fi/Fantasy”: i Joan Of Arc pescano soprattutto dagli ultimi due album, ma sciorinare la scaletta e affettare i brani sarebbe un po’ tradire l’essenza della band.
In mezzo al delirio musicale, dalla chitarra e dal synth di Kinsella escono melodie sghembe e irregolari, che da un punto di vista armonico sembrano complimenti detti male, ma con dolcezza e sincerità, tanto da arrivare comunque dritti al cuore. Sul finale la Ausikatis torna di nuovo bambina cantando “Tiny Baby” e quando si china a giocare con gli effetti della pedaliera, sembra davvero di vederla almanaccare con le sue vecchie bambole (“I cry when all boys in the book / stole their girl's doll and threw it in the mud”).
L’encore è una jam strumentale che porta dall’altra parte dell’oceano e chiude con un riferimento all’11 settembre. “Grazie, grazie, grazie”. Dal pubblico c’è chi reclama a gran voce una canzone precisa, estraendola da qualche passaggio imprecisato della loro sterminata discografia. Desideri lanciati per aria, sperando che qualcuno li raccolga tramutandoli in realtà.

Io guardo verso le dita di Kinsella e chiamo “Post Coitus Rock”, ma solo alla fine del concerto mi rendo conto di non averlo mai fatto, come quando pensi una cosa e alla fine non la dici. Forse è proprio per questo che i Joan Of Arc non l’hanno suonata. Bastano comunque le melodie e i complimenti, quando vengono dal cuore.

(Grazie a Luca Benni)



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