29/11/2018

Johnny Marr

Fabrique, Milano


Antefatto

La giornata milanese di Johnny Marr inizia di buon mattino, con la visita a uno store per il firmacopie della sua recente fatica autobiografica. Vedove della famiglia Smith, mod d’antan e nostalgici britpopper si ritrovano in fila composti - manoscritto da una parte e vinili d’epoca sottobraccio dall’altra - in attesa del loro turno per il pacchetto offerto dalla Casa, e cioè foto, due chiacchiere di rito e l'immancabile autografo. Baci & abbracci e arrivederci.
Di solito, ci immaginiamo le grandi star come novelli Giove, belli, alti e prestanti, perché così sembrano quando sono sul palco o li si vede in video. Vuoi dunque mettere la sorpresa e l’incredulità generale quando, puntuale come uno scudetto della Juventus, si materializza in sala un omino minuto, magro come un’acciuga sotto un casco di capelli neri, gambette fini alla Lupin e chiodo d’ordinanza. Si fa quasi fatica a identificare in questo scricciolo il guitar hero che, comunque la si pensi, ha influenzato gli ultimi 30 anni del pop britannico, inventando uno stile nel suonare la chitarra che ha fatto scuola, postura compresa.

Converrete col sottoscritto che sminuire, etichettando come autore minore (orrore!) un Signore che ha scritto tutte le musiche degli Smiths, compresi una decina di riff che sono storia del pop, sia un po' come trovare delle affinità tra i Modà e gli Einsturzende Neubauten.
Si dice: ma dopo la fine della saga mancuniana è uscito dai radar. In realtà il ruolo – secondario - di prestigioso sessionman che gli è stato cucito addosso, è roba assai opinabile, da maneggiare con cura.
In merito, citofonare Pet Shop Boys, interno “Behaviour". Cioè il disco più sopraffino che la premiata ditta Tennant/Lowe abbia mai licenziato, da Lui palesemente influenzato. O il progetto Electronic, messo su insieme a quell'altro genietto di Bernard Sumner, capace di vendere un milione di copie col primo album omonimo. E magari i Modest Mouse, dove è insieme produttore e membro, che arrivano nel 2007 al primo posto di Billboard (cioè delle classifiche Usa, che qui non siamo a San Marino).
Non c’è nemmeno bisogno di scomodare le mille mila collaborazioni esterne.
Ovunque abbia messo le zampe - e cioè chitarra, idee e arrangiamenti - Johnny “Stecchino” ha sempre lasciato il segno, nelle chart e nella critica. Postulato #1.

A maggior ragione ora che si è messo in proprio. Una nuova fase creativa, arrivata quasi per caso alla boa dei 50, che finora ha partorito tre dischi di ottima fattura, e una manciata di brani che non avrebbero avuto difficoltà a essere inseriti nel canzoniere di famiglia.

Concerto

Marr arriva al Fabrique per presentare il nuovo “Call The Comet”, dato alle stampe la scorsa estate. Entra on stage che non sono nemmeno le 21 (un voto in più all’organizzazione per aver tagliato inutili  e sconosciuti opening act che il più delle volte servono solo a sforare i tempi) accolto come un eroe moderno, imbracciando la sei corde che non mollerà un solo istante per tutte le due ore di concerto, perché chi nasce tondo non può morire quadro. Postulato #2.

La setlist pesca a piene mani dal nuovo album, inframmezzato qua e là dai classici Smiths e da un paio di sciccosi episodi targati Electronic. La band fa il suo, il suono è compatto e potente grazie a una sezione ritmica di tutto rispetto, e la voce diretta, sincera, senza sbavature. Qualsiasi tentativo di azzardare paragoni con la timbrica vocale di Morrissey rappresenta solo una sterile provocazione, da rispedire al mittente senza contraddittorio alcuno.
E’ un Marr pimpante, a suo agio nell'inedito ruolo di frontman, quello che scherza e dialoga col pubblico tra un brano e l'altro: tesse le lodi della “Madchester disco" quando presenta “Getting Away With It” e l’ossessiva “New Dominions", retta dai pad elettronici con un incedere che porta direttamente al Fad Gadget degli esordi; su precisa richiesta delle prime file accenna il riff di “This Charming Man”, peraltro subito abortito (non si scherza coi sentimenti vecchio mio, qualcuno poteva restarci secco), prima di attaccare con "Last Night I Dreamed That Somebody Loved Me”.
La legge del contrappasso nel nostro caso non concede sconti: Johnny è artista felice e realizzato. Traspare da come si muove, da quello che dice, da “every breath he takes” (op. cit.). E mentre lui sale posizioni, il buon Moz prosegue l'avvitamento in una spirale che si fatica a capire, tra nervosismi inspiegabili, concerti e tour annullati per questioni banali, estremismi vegani e sovranismi di cui si elegge sempre più portavoce.  Postulato #3.

Il bis raggiunge livelli di pathos emotivo totali, i cuori come un frequenziometro impazzito in “You Just Haven’t Earned It Yet Baby" e soprattutto “There Is A Light That Never Goes Out", ovvero la perfetta canzone pop, con la frase cult “and if a double-decker bus crashes into us, to die by your side is such a heavenly way to die" - inno di un'intera generazione - scandita in loop prima sul palco e poi a cappella dall’audience tutta. E sono brividi.

Buona vita Johnny “Stecchino", non ti curar di loro, ma guarda e passa. Keats e Yeats saranno sempre dalla tua parte.



Setlist

The Tracers
Bigmouth Strikes Again
Jeopardy
Day In Day Out
New Dominions
Hi Hello
The Headmaster Ritual
Walk Into The Sea
Getting Away With It
Hey Angel
Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me
Spiral Cities
Get The Message
Easy Money
New Town Velocity
How Soon Is Now?

Encore

Rise
Bug
The Is A Light That Never Goes Out
You Just Haven't Earned It Yet, Baby

Johnny Marr su Ondarock

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