25/07/2018

King Crimson

Piazza Napoleone, Lucca


Forse è così che ci si sente dopo aver assaggiato la furia di Poseidone. Istantanee isolate, echi di frasi sconclusionate, il ricordo della quiete prima dell’arrivo delle onde. E quelle, ancora, le senti travolgerti; e ti smuovono nel sonno anche dopo averla passata liscia.
Sembrava un viaggio di ordinanza quello che ci aspettava al Lucca Summer Festival, sebbene molto ci si aspettava da quegli otto signori - impeccabili brizzolati in camicia e gilet - in capo al timone. Li conoscevamo già dopo quell’ultima traversata italica dello scorso 2016; noi poveri illusi. Ma stavolta era diverso: non si era più nello splendido Auditorium Conciliazione romano, vascello perfetto nella sua compostezza per entrare a fondo negli arabeschi su pentagramma di Fripp e soci. Una piazza stavolta, in una sera d’estate. Turisti, qualche spettatore occasionale, attese goffe tra una birra e un trancio di pizza. Ma per favore, signori! Rassegnati in partenza, decidevamo di accontentarci e prepararci già a rimpiangere il ricordo di quella perfezione che fu...

E quasi iniziavamo a farlo davvero, dopo i primissimi brani snocciolati con insolita flemma, senza sentire davvero quella dirompenza che martellò sin dai primi minuti in quel di Roma. Ma probabilmente era solo colpa nostra: quel marasma di mandibole impegnate a divorare i loro ultimi bocconi, passeggeri un po’ imbranati che ancora dovevano trovare il loro posto (ma davvero?), fanciulle forse capitate lì per caso, sigaretta in una mano e cellulare nell’altra, tra un “ma lo sai della Fra?” e un “se lo poteva risparmiare, certo!” (ma davvero?).
Vagli a riferire a questi qua che il capitano di bordo, il buon Robert “il burbero”, fa discorsi sul non fare foto e godersi finalmente quel maledetto spettacolo. Noi lo prendevamo in giro sulle prime, quel vecchio brontolone, ma aveva ragione lui. La cultura dello spettacolo uno non se la può mica dare; e allora giù a suon di cartelli di divieto e avvisi più o meno cordiali.
“Povero Robert, che brutta fine che hai fatto!”, ci sfiorava il pensiero alla fine di una meravigliosa “Pictures Of A City” disturbata dal rumore di fondo.

Ma la furia dell’oceano, come la raccontava il Re Cremisi quasi 50 anni fa, non si ferma con la maleducazione dei piccoli uomini della nostra epoca. Ed eccoli che finivano lì, dieci metri sotto l’acqua, trascinati via da quella distesa di synth, sax e batteria di batterie sincronizzate da far spavento. Non c’è attentato alla concentrazione che tenga quando arrivava addosso un tir dove sulla targa c’è scritto “In The Court Of The Crimson King”. Che buffa la vita, ti azzardi a temere la delusione in un momento di scarsa fede e ti ritrovi pochi minuti dopo in uno dei climax concertistici della tua vita, portato via dalla mastodontica doppietta di “Lizard” e “Islands”. Non potevamo far altro che seguire le onde, gentili ma possenti, trasportati via da quelle correnti sempre mastodontiche ma mai prive di armonia: lunghissime sinusoidali come le ritmiche cicliche e dilatate degli albionici. Uno strapotere selvaggio ma razionale, fatto di un marasma di arpeggi, suoni e percussioni che pur risponde a un programma rigoroso. I cellulari, panini e sigarette persi per strada, noi tutti con la faccia ebete verso il palco o il maxischermo di turno che indugia su movimenti studiati all’infinito, ma che sembrano da sempre nati per snodarsi su quelle traiettorie.

I flash, quelli ti rimangono dopo che una roba del genere ti travolge via dai tuoi rituali ormai vuoti e meccanici. Ti rivedi Harrison, Stacey e Mastelotto muoversi come ruote di un enorme orologio, così diverse e così incastrate alla perfezione: potenza, classe e dinamismo incastonati nel dondolio di quell’enorme tappeto sonoro sopra di noi. Ti ricordi Collins mentre ti sveglia prima dall’ipnosi con i fraseggi al flauto traverso, poi ti tramortisce con i salti poderosi del suo sax. Vedi Levin che pompa con le ditone le grosse corde del suo stick. Capisci che Jakko non è lì solo per il suo delizioso timbro, ma anche per l’estro di cui gode alla sei corde e Reflin è il discepolo a tempo pieno che le tastiere dei Crimson meritano sempre di avere.

Ma una cosa ce l’abbiamo ancora bene a fuoco: Robert Fripp e il suo ghigno. Sì, il ghigno. Ok i numeri alla chitarra, quando si intreccia a meraviglia con Jakko su “Discipline”. Ok quando rischia di infartarci quando spara i synth di “Epitaph”, con la folla che parte di testa. Ma il ghigno è quello che più ti ricordi di lui, lo strumento in più della serata. Riesci a coglierlo dopo il “Mi piace!” urlato da Jakko dopo una ruvidissima “Indiscipline”. Le telecamere lo tradiscono nuovamente durante il lunghissimo, storico, angosciante crescendo di quel capolavoro che è “Starless”. Te lo immagini mentre Harrison scuote il mondo nel suo assolo di “21 Century Schizoid Man”. E’ uno che parla poco e fa tanti fatti, il buon Fripp. Si esprime solo con quel mezzo sorriso tirato, mentre si gode il mostro a otto teste (qualcuno forse l’ha redarguita per le “sole” sette, l’ultima volta, signor Robert?) che ha tirato su.

Troppa carne al fuoco, questi King Crimson; e manco un pezzetto bruciato per sbaglio. Da goderseli ad ogni costo finché possiamo, perché questo è probabilmente il “dinosauro” (tra tante virgolette) degli anni Settanta meglio conservato e più fresco che si trovi in circolazione, risultato di chi ha sempre saputo guardare avanti e prendersi le giuste pause nel momento giusto.
Ma, caro Fripp, a proposito di pause e ora che ce la siamo scampata un’altra volta da cotanta opulenza live: non sarebbe giunta l’ora per un nuovo album?