Una volta, conversando con un'amica a proposito di concerti, ci mettemmo a stilare una lista dei cantanti più performanti in cui ci fossimo imbattuti. Forte della mia discreta esperienza in materia, tagliai corto sulla questione: anche le voci più rodate e intonate dal vivo sono soggette a pur lievi imperfezioni, com’è umano che sia. Poi però, ripensando al concerto dei Low a cui avevo da poco assistito, mi sono corretto: loro potrebbero essere la clamorosa eccezione a questa regola universale. La ricordo ancora bene, quella magnifica serata del 2011 ai Magazzini Generali di Milano: la perfezione con cui i coniugi Sparhawk intrecciavano le loro armonie, educate in piccole chiese di legno coperte di neve, era pari solo alla disarmante bellezza delle canzoni. Fu uno show così ineccepibile da risultare quasi frustrante, quantomeno per un musicista perennemente insicuro come me. Anche solo per riprovare quella sensazione non potevo mancare a questa nuova data meneghina, resa ancora più intrigante dalla sfida di riprodurre sul palco le complesse tessiture elettroniche di "Double Negative", a cui non può che giovare la rinomata acustica del Teatro Dal Verme.
Un teatro, per l'appunto, il che vuol dire due cose: foto off-limits e puntualità svizzera. E difatti, dopo l'immancabile intimidazione anti-cellulari diffusa dagli altoparlanti, con metà sala ancora latitante si palesa sul palco Nadine Khouri, cantautrice anglo-libanese scoperta dal solito John Parish, con due dischi all'attivo. Armata di una fiammante 335, dipinge una mezz'ora di tenue fingerpicking riverberato, arricchito da una voce che ricorda vagamente quella di Emma Tricca. Complici una scrittura poco ficcante e l’estrema timidezza dell'artista, forse messa in soggezione dal nome altisonante che sta per calcare la scena, il set finisce col risultare troppo diafano, scorrendo via senza mai davvero catturare la nostra attenzione.
Un'altra mezz'ora per sistemare la backline su un sottofondo reggae di dubbia attinenza, e ancora una volta puntualissimi ecco arrivare i tre cavalieri dell'Apocalisse. Già solo a vederli ispirano rispetto, con il loro dress code monocromatico e quella disposizione geometrica, un triangolo nero con al vertice la batteria velvettiana di Mimi. Non si scorgono invece sintetizzatori, drum machine o controller di alcun genere, il che lascia presupporre una radicale ristrutturazione del materiale recente.
La conferma arriva a breve: immerso in una balsamica luce blu, Alan liscia il pelo alla sua Danelectro, resa irresistibilmente crispy dal piccolo ampli 15 watt e fatta rimbalzare ai quattro angoli del teatro da un rintronante reverse delay. Poco dopo irrompono i solidi timpani della moglie e il disturbato incubo di "Quorum" si trasforma in un volo d'aquila sopra una prateria ghiacciata, prima di franare in un polverone di ghiaia distorta. Tutto chiaro: assisteremo a una suggestiva versione stripped-down, che ci permetterà di capire come furono concepite le ultime canzoni prima di essere rivestite con la placca sintetica. Pochi suoni, tanto Suono, com'è sempre stato nel loro Dna.
Stesso trattamento anche per i brani del penultimo "Ones And Sixes", ma con esiti opposti: tanto era epica l'apertura tanto è asciutta la seguente "No Comprende", con la chitarra disidratata in un serrato palmmuting e la batteria secca come lo scheletro di un piccolo dinosauro, pacate anche durante le micro-esplosioni del ponte. Stavolta dominano delle sanguinolente lanterne rosse, ad avviare un gioco di dissolvenze cromatiche che muterà a ogni brano, sottolineandone il colore emotivo.
Alan non è mai stato un tipo di molte parole, e il suo ringraziamento è infatti stringato come il tenero folk polifonico di "Plastic Cup". "The Innocents", al contrario, è tesa come una fune da equilibrista tra l'algido octaver della chitarra e il fragile canto di Mimi, angelo cianotico al pari delle luci nel frattempo diventate violacee. Nulla, in ogni caso, al cospetto di "Tempest", demolita a colpi di bitcrusher e basso distorto, i cori così acuti che paiono assottigliarsi come il corpo di un malato terminale, fino a dissolversi.
"Always Up" fa circolare di nuovo un po' d'aria, la chitarra si riduce a un alone sbiadito e le voci si ritrovano a cappella quasi contro la loro volontà, ma i tre sanno anche essere compatti manco fossero manovrati dalle stesse dita. "Dragonfly" è altrettanto rarefatta, le percussioni si miniaturizzano, le corde stridono come piccoli insetti e anche le due voci sembrano rimpicciolirsi mano a mano che scalano un falsetto celestiale, tra gelatine verdi acidamente bucoliche.
Queste esecuzioni così sedate preparano il terreno per il momento più intenso della serata: inizia a dipanarsi un crescendo esasperante, sottolineato dal ride spazzolato e dall'insistito del basso, poi la chitarra si cristallizza e precipita come un suicida sul suolo arido di "Do You Know How To Waltz?". La cantano insieme come due amanti distanti, poi Mimi si lascia andare a un vocalizzo sconsolato, tristissimo, il lamento di una vedova non ancora rassegnata alla perdita dell'uomo della sua vita. Da lontano prende forma una tempesta di sabbia, che si avvicina sempre più sradicando tutto ciò che incontra, sprofondando infine come uno scoglio negli abissi. In totale credo sia durata una ventina di minuti, un impressionante calvario folk-drone che ci ha tenuti incollati come una scena d'azione incerta fino alla fine, in cui perdersi per non ritrovarsi. Stavolta ci hanno proprio stesi, tocca alzarsi in piedi e spellarsi le mani. Ed è solo perché siamo ancora tramortiti da quanto appena accaduto che non accogliamo con lo stesso calore una "Lazy" da motel sperduto nel deserto, il basso sinuoso come un serpente a sonagli, la chitarra gonfia di scorie younghiane (sbalorditivo quanta massa sonora riesca a generare con così poco sforzo apparente), il ritornello che echeggia all'infinito come l'ultima nota di un film western.
Dopo averci chiesto se va tutto bene e se "le poltrone sono abbastanza comode" (battuta da cabarettista, in bocca a uno degli uomini più ermetici e taciturni sulla faccia della terra), Alan torna a denudare l'ultimo disco con sadismo da stupratore. Si inizia con "Always Trying To Work It Out", minacciosa come un iceberg all'orizzonte, proseguendo con "Poor Sucker", ossessiva, appiccicosa, asfissiante. Ma è soprattutto la devastante "Rome (Always In The Dark)" a impadronirsi della scena, tra i fragorosi tamburi di guerra di Mimi e i feedback imbizzarriti di Alan, tutti e due urlando all'unisono in una notte che non sembra rischiararsi mai. "Fly" (la mia preferita, e l'unico momento della scaletta a essere accompagnato da una pulsazione elettronica) è invece delicata come il pianto di un bimbo, glitch appena accennati e un discreto ring modulator, in mezzo a neon blu e rossi che ne enfatizzano il retrogusto nipponico.
Dopo l'impennata emozionale di "Spanish Translation", scolpita dai turgidi mallet di Mimi (che sin dal primo brano picchia duro come una dannata), è la volta di un altro viaggio da pelle d'oca: "Nothing But Heart" è una di quelle litanie che solo i Low avrebbero potuto concepire, minimale come un haiku e profonda come una confessione, un verso ripetuto fino all'ipnosi su un flusso di note che si ingrossa senza mai straripare, in qualche maniera sia coeso che scomposto, lo sciamano Alan che salmodia in trance e intanto strazia la chitarra senza fare una piega, ostentando un controllo magicamente schizofrenico. "Holy Ghost", che gareggia in sacra sensualità con la rilettura di Mavis Staples, è l'unica carezza abbastanza dolce da ridestarci senza sconvolgerci, compito lasciato volentieri a "Lies", dove l'ingresso in falsetto di Mimi ci incorna come un toro trafitto da mille spade.
Ultimi fuochi prima di soffocare il falò: "Dancing And Fire" si propaga ad onde ma ferisce come una sassaiola, "Disarray" parte sottovoce poi accelera come una carica di bisonti. Difficile dire se frecce così avvelenate facciano più male a noi o a loro.
"Dato che ci sono così tante persone ancora sedute, abbiamo deciso di suonare altre due canzoni anziché una sola": l'umorismo di Alan continua a non decollare, ma che bisogno hai di risultare spiritoso quando puoi ammutolire una città intera con il canto natalizio per sola chitarra di "Will The Night"? Le presentazioni più brevi della storia, un commovente invito a "continuare a cercare la speranza e la pace" (il messaggio del disco che stanno portando in tour, in fin dei conti) e la definitiva rivoltellata al cuore con "Murderer", blasfema come solo un vero devoto sa essere. I fari ci accecano, il reggae torna a tormentarci, ma siamo ancora così pieni di luce da non farci caso.
Pensare che un concerto così elaborato, umorale e coerente sia stato costruito ricorrendo a un basso ultra-minimale, una batteria suonata solo con le braccia e una chitarra mai cambiata durante l'intera esibizione (una Les Paul di scorta, adagiata a bordo palco, è rimasta silente) dà molto da pensare. Splendide nei ghingheri originali, le canzoni raddoppiano il loro incanto una volta spogliate di tutto. Se il primo concerto fu un greatest hits per fan ingordi, questo è stato una messa in suffraggio dell'universo.
Che roba, 'sti Low. In 25 anni di carriera mai un disco non bello, mai un'esibizione deludente, mai nulla che si attesti sotto il pelo dell'eccellenza. Cosa abbiamo fatto per meritarci una simile meraviglia?
(Ossydiana Speri)
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Mi sono chiesto quanto senso avesse ascoltare per la prima volta dal vivo i Low in corrispondenza di una svolta così radicale nel sound, ottenuta in studio con effetti elettronici pervasivi e obliteranti, in grado di trasfigurare ma non elidere l'identità plasmata dal trio nel corso di venticinque anni. Conosciuti da almeno una decina d'anni, riscoperti a partire dalla luminosa sincerità di "C'mon", amati del tutto con "Ones And Sixes" e il presente "Double Negative", prove che li hanno sottratti ancor più decisamente dalla condizione di "reduci" dello slowcore novantiano.
Col senno di poi mi sento di azzardare che non ci fosse occasione migliore per conoscere Alan Sparhawk, Mimi Parker e Steve Garrington in carne e ossa, in una delle sontuose sale da concerto che sempre più spesso accolgono le loro recenti performance: quella del Teatro Dal Verme di Milano, per l'unica tappa italiana di questo tour così importante, la cui attesa è stata alimentata proprio dalla curiosità – letteralmente – di scoprire le trame sonore dell'ultimo album, "denudate" del drastico intervento post-produttivo che le ha rese tra le più puntuali ed efficaci testimonianze in musica del nostro turbolento e contraddittorio momento storico.
Una bellezza devastata su disco, una bellezza devastante, disarmante, nell'auditorium: sin dalle prime note di "Quorum" è chiaro come i Low ci stiano offrendo un incontro musicale intimo e prezioso, incentrato sulla possente alchimia acquisita negli ultimi anni, pervasa da una drammaticità nuova e vigorosa tanto nei suoni quanto nelle liriche. Ne daranno riprova diversi pezzi datati al 2016 come "No Comprende", "Spanish Translations" e "Lies", ma anche il nuovo perturbante pre-finale di "Rome (Always In The Dark)", immutato nel ruggire delle distorsioni e nella ritmica quasi marziale.
Ma se dalle fitte screpolature operate in studio su "Tempest", prevedibilmente, dal vivo affiora un canto arrendevole e struggente ("You can forgive them, them/ You grin for them all/ Even when you won't"), forse nessuno si sarebbe invece aspettato la tempesta strumentale nella quale, di lì a poco, il trio si sarebbe immerso completamente con "Do You Know How To Waltz?", trascinandola in una lunga coda che è sembrata addossarsi tutta l'inquietudine – più o meno esplicita – dell'esibirsi in tour attraversando le varie tensioni politiche che minacciano il mondo occidentale ("One more dance/ Before they take away the light/ One more spin around the line").
E a ben vedere "Double Negative" si regge sulla stessa ambivalenza, la stessa insanabile conflittualità della scaletta presentata in questo concerto pressoché perfetto: paura e speranza, fragilità e forza interiore conviventi nello stesso cuore pulsante; "Nothing But Heart", se costretti a scegliere, rimane il testamento poetico in grado di vincere su ogni altro cedimento, la luce rossa che investe la penombra del palco, rinforzando un legame affettivo che il pubblico in sala avverte e dimostra nei confronti dei Low, inondati dall'applauso più sincero e commovente di tutta la serata.
Ma l'idillio spirituale del concerto non rimane confinato in quella parentesi spazio-temporale, per quanto già pienamente soddisfacente: esso si riverbera in tutti gli ascolti successivi, in ogni canzone del repertorio passato e presente riscoperto sotto una luce tutta nuova, come se il segreto dell'equilibrio emotivo tra Alan e Mimi si disvelasse realmente per la prima volta, e quelle semplici, stupende armonie vocali rispecchiassero la loro anima come non mai. Finalmente so cosa significa ascoltare i Low in concerto, e perché nessuno me ne avesse parlato in termini meno che entusiastici.
(Michele Palozzo)
Quorum
No Comprende
Plastic Cup
The Innocents
Tempest
Always Up
Dragonfly
Do You Know How To Waltz?
Lazy
Always Trying To Work It Out
Poor Sucker
Rome (Always In The Dark)
Fly
Spanish Translation
Nothing But Heart
Holy Ghost
Lies
Dancing And Fire
Disarray
Encore
Will The Night
Murderer