A meno di un mese dalla fine dell’anno si può legittimamente iniziare a tirare le somme su questo 2018. Il mio ha avuto picchi di meraviglia e cadute dolorose, momenti di splendore e dannazione più nera, e in questo saliscendi emozionale posso ora dire di essermela più o meno cavata. Senza scendere troppo in dettagli ininfluenti, credo che il filo rosso che ha tenuto insieme tutto sia stato, mai come questi ultimi mesi, il dovermi ritrovare di nuovo aggrappato fortemente a me stesso. Ho viaggiato e camminato da solo, ho cercato e trovato un porto sicuro dentro di me mentre fuori i castelli crollavano uno dopo l’altro e io facevo finta di niente. In tutto questo, passeggiando per i Musei Vaticani, sotto il sole della Cantabria o la pioggia di Parigi, la voce di Micah P. Hinson mi ha preso per mano con discrezione e gentilezza, spesso domando il fuoco dei miei stupidi e inutili problemi esistenziali. Insomma, le canzoni del cantautore di Abilene hanno saputo parlarmi nel modo più giusto: avrei voluto ringraziarlo, mi sarebbe piaciuto far capolino tra la nebbia della Brianza e del fumo della sigaretta che ardeva nel suo inseparabile bocchino per dirgli che, in fondo, la sua musica sarà sempre parte di me. Mi sono limitato a un sorriso, un cenno con la mano e la promessa di qualche frase buttata lì per ricordare una notte speciale, una delle ultime di un anno da archiviare in fretta.
Di sicuro il 2018 di Micah P. Hinson ha visto l’uscita di un nuovo disco, “When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You”, che si può definire a ragion veduta il lavoro più cupo e introverso del crooner texano. Il tour europeo di supporto non poteva certo dimenticare la sua amata Italia, e il Tambourine di Seregno è la prima di una serie di tappe che lo vedranno toccare un po’ tutta la penisola, dal Nord Italia alla Sicilia passando per Roma. Devo dire che, nelle mie cervellotiche elucubrazioni, ho immaginato il tardo autunno brianzolo come un contesto tutto sommato giusto per sintetizzare la sua arte. Un’impronta malinconica e fosca, fredda e umida, spoglia e spesso decadente, ma che nelle giornate giuste è in grado di regalare sprazzi di bellezza. Questo è per me la Brianza: un microcosmo sigillato che, pur tenendo connessi al mondo metropolitano, lascia al singolo il tempo di riflettere, di prendersi i propri spazi, di perdersi e ritrovarsi. E quindi si inizia da qui, in una serata dicembrina fredda il giusto, in un locale piccolo ma che tutti noi ragazzi/adulti cresciuti alle porte di Milano non manchiamo mai di coccolare come fosse una seconda casa. Fa un certo effetto entrare e sentire, in mezzo al vociare indistinto, parecchi accenti lombardi diversi: mi era già capitato di vedere mr Hinson dal vivo qualche anno fa e già in quella occasione notai il grande seguito che il nostro può vantare nel Belpaese. Sarà che siamo gente che storicamente mette le emozioni prima di tutto, chissà.
E così, mentre la birra inizia a scorrere dagli spillatori e la temperatura interna si alza sempre di più, Morning Tea intrattiene i numerosi astanti con un gentile fingerpicking e linee vocali pulite e ordinate, in completa contrapposizione con quello che avremmo visto da lì a poco. Alle 22.30 in mezzo al pubblico si palesa il ragazzo venuto dal Texas, felpa con cappuccio tirato sulla testa e zaino in spalla, completamente solo (e, ottima notizia, completamente sobrio). Un soundcheck di circa 30 secondi prima di scomparire di nuovo nella folla, per poi tornare e iniziare finalmente il suo racconto in musica. Bisogna dirlo, vederlo sul palco fa sempre effetto: un giovane uomo fragile e piegato da una vita difficile e dalla pesantezza del tempo che sembra passargli davanti troppo in fretta, pigro e indolente, inafferrabile nei suoi sguardi lanciati verso il vuoto, con quella faccia da bambino vagamente nerd montata su un fisico di un sessantenne. In lui è facile vedere un cantastorie degli anni 30 travestito da vecchia gloria dello skate, una figura tutta sbagliata che proprio per questo si fa volere un gran bene. Nessun altro sul palco, lui e la sua chitarra: il concetto di solitudine che ritorna ancora, e ancora.
Dopo qualche scambio di vedute con il fonico e un’infilata di “fucking” e “shit” utili a rompere il ghiaccio e rinforzare più o meno furbescamente l’allure maledetta del personaggio, Hinson si lancia in una prima parte di live completamente dedicata al nuovo album. “I Am Looking For The Truth, Not A Knife In The Back” apre le porte del concerto allo stesso modo del disco da cui è tratta, con un canto doloroso sostenuto da carezze di chitarra elettrica. Carezze che si trasformano in uno schiaffo in pieno volto con le sferragliate di “The Sleep Of The Damned” e di “Small Spaces”, vestite di inquietudine e di un’urgenza che quasi mai ritroveremo nel corso della serata. Non c’è più fiato per gridare, non c’è più spazio per scalciare via il dolore: nel mondo di Micah tutto è ormai diventato precario, sofferto, flebile, quasi sussurrato, come nella splendida “My Blood Will Call Out To You From The Ground”, toccante elegia purtroppo rovinata da uno spettatore troppo chiacchierone e prontamente richiamato al silenzio dallo stesso Hinson, o la successiva “The Day The Volume Won”, una ninnananna per cuori martoriati direttamente da “The Baby And The Satellite”.
È proprio qui che inizia una seconda parte di live in cui Micah si rivolge con benevolenza al suo passato, sfogliando come una margherita i bigini con i testi delle vecchie canzoni, tenuti ordinatamente sul leggìo. Del resto, si sa, le parole sono importanti ma non sempre si riescono a ricordare. Quello che non si può dimenticare sono i sogni, i turbamenti e i fantasmi che escono da pezzi che non ci sembra blasfemo definire “senza tempo”: mi riferisco specialmente a “You Lost Sight On Me” e “I Still Remember”, due delicatezze di quel manifesto d’esordio che fu il “The Gospel Of Progress”, brani che riemergono con forza dagli abissi anche in questa nuda veste proprio perché nude nascono, nella loro semplicità e purezza. E sempre al Gospel appartiene “Beneath The Rose”, il frame forse più rappresentativo della sua breve ma intensa carriera, riletta in una versione rarefatta, in cui la linea vocale incespica e si mantiene sempre sull’orlo del baratro senza cadere mai.
E alla fine, dopo qualche battuta sul suo inseparabile orologio, sul maglione che indossa e che dice di aver trovato nel bagno del locale (!) e sul mercato discografico che non gli permette di far uscire dei dischi di 3 ore e mezza (che tanto “su Spotify potreste ascoltarli tranquillamente, che cazzo!”), arriviamo all’encore e alla sempre tragica bellezza di “The Dreams You Left Behind”, che fa calare il sipario su questa serata e su questo 2018 che sta per chiudersi.
All’inizio del concerto ho provato a spiegare a una ragazza straniera conosciuta poco prima cosa pensavo della musica di Micah P. Hinson con il dichiarato obiettivo di non ammorbarla e di non mettermi troppo in ridicolo con il mio inglese approssimativo. Ho usato le parole “deep and dark”, e credo proprio di averci azzeccato. Il suo ragazzo, persona squisita, annuiva e sorrideva.
Grazie di essere passato da qui, Micah. Buon anno nuovo a te, a noi, a tutti.
And what shall I do
When it finally crumbles away
Pick up all these years
That I seen myself throw away
To where I know it will be safe
From all your broke
All your broken hearts
("You Lost Sight On Me")
I Am Looking for the Truth, Not a Knife in the Back
The Sleep Of The Damned
Fuck Your Wisdom
When I Shoot At You With Arrows I Will Shoot To Destroy You
Small Spaces
My Blood Will Call Out To You From The Ground
Skull Of Christ
The Day The Volume Won
Can’t Change A Thing
You Lost Sight On Me
2s And 3s
I Still Remember
It's Been So Long
Beneath The Rose
This Old Guitar
Kiss Me Mother Kiss Your Darling
When We Embraced
The Dreams You Left Behind