22/11/2018

Peter Murphy

Fabrique, Milano


di Mauro Caproni
Peter Murphy

Vigilia. Atmosfera tesa. Sui social dominano i nostalgici della prima ora, quelli che “li ho visti mille volte, la prima nel 1974 e ora sono una parodia di se stessi” (roba del tipo “mi ha detto mio cuggino che una volta è morto” op. cit. Elio), quelli che si cimentano in calcoli algebrici per dimostrare, bilancia alla mano, di quanti chili sia in soprappeso il buon Peter, o quanti pochi capelli rimangano fedeli al suo cranio. Spuntano fotografie di biglietti ante litteram, datati 1982 o giù di lì. Ci si sfida a osannare la reunion gloriosa del 1999, e persino quella un po' così del 2006, che pure all'epoca aveva fatto storcere il naso a molti. Trattasi, insomma, di gara a chi la spara più grossa, con l'intento nemmeno tanto velato di ghettizzare e bullizzare chi invece attende il concerto se non con ansia tipicamente giovanile, almeno con curiosità, perché magari è la prima volta che si trova a tu per tu con Peter Murphy.

Tutto ciò premesso, è bene ribadire chiaro e forte un concetto elementare, che pare a molti sia sfuggito. Non si tratta dell’ennesima rinascita dei Bauhaus, ma di un tour a nome Murphy, che ha voluto celebrare a suo modo il quarantennale della band. Unica concessione, l'invito a salire a bordo rivolto al vecchio sodale David J, con cui evidentemente è rimasto in ottimi rapporti. Per cui i paragoni col glorioso passato, che già sarebbero stati quasi superflui pure se on stage si fossero materializzati Ash e Haskins (cioè i restanti 2/4 del combo), stando così le cose diventano del tutto inutili, atti solo a celebrare quel celodurismo che va tanto di moda quando si scontrano i fan di vecchia data di band celebri.

E così, tra neofiti, darkettoni attempati, orfani di Shelter e Zoe e gli immancabili rematori contro, che già pregustano il sangue sui social a spese del Nostro, il Fabrique si riscopre pieno come un uovo, quando Murphy e la band fanno il loro ingresso sul palco. Sono carichi a molla, si nota a prima vista, smaniosi di lasciarsi alle spalle tutti i problemi tecnici che il giorno prima hanno rovinato e dimezzato lo show romano. Lo Sciamano, in particolare, si avvicina con fare minaccioso ai fotografi, limitandosi però a un paio di calcetti per spostare alcuni cavi mal sistemati a bordo palco. Sospiro di sollievo, è nota infatti la sua allergia nei confronti dei paparazzi, secondo in questo solo a Nick Cave.

Il concerto inizia subito col botto. Prima parte dedicata interamente a "In The Flat Field", gloriosissima pietra miliare del gothic rock, riproposta nella sua interezza, e non succedeva dal tour del 1980... “Double Dare" in particolare, con le sue pulsazioni di basso, le dissonanze e la chitarra tagliente ad affettare l’atmosfera, è l’opener perfetta.
Lo spettacolo che va delineandosi è quasi all’antica, nessuna scenografia particolare, tecnologica sul palco inesistente, no schermi e zero elettronica. In compenso, l’eccellente uso dell’impianto luci e la macchina del fumo ricreano un’atmosfera perfetta, in pieno gothic style, e in sintonia con la musica. Geniale il faretto che illumina più volte nel buio il volto luciferino di Murphy, maschera perfetta da cabaret dell’orrore.

Il Principe Nero è in gran spolvero, elegantemente vestito con dosi abbondanti di trucco, teatrale e magnetico come nei giorni migliori. Non si risparmia e gestisce la voce nel modo migliore, senza cali, sino alla fine. Da grande attore, personaggio provocatorio e carismatico quale è sempre stato, va avanti e indietro senza interruzione, teatrale alla Bowie o più morbidamente pop alla Martin Fry, quando è il caso. Dialoga col pubblico, fa le presentazioni con un maccheronico “bellissimo” associato al nome dei musicisti, gioca con un proiettore di luce sparandolo sulle prima file, si agita indemoniato e quando non canta, si divide tra clavietta, processore di effetti e percussioni, in perenne movimento e totale padronanza del palco.

Dopo l’elettricità psicotica, quasi drammatica di “In The Flat Field", spazio nella seconda parte all’immancabile carrellata di hit, a partire dall’ultra-classico "Bela Lugosi Is Dead”, passando attraverso "Passion Of Lovers”, il periodo più marcatamente wave dell’album "Burning From The Inside" (con il brano omonimo e soprattutto l'iconica "She's In Parties), per poi chiudere il cerchio laddove tutto era iniziato, e cioè “Dark Entries", anno di grazia 1979.

Nell’encore la splendida interpretazione di “Severance" dei Dead Can Dance, con doloroso taglio delle cover eccellenti "Telegram Sam” e “Ziggy Stardust”, presenti invece in setlist nelle precedenti date europee. Ma è l’unico neo di una serata che si preannunciava incerta e che finisce in trionfo.
Alla fine, al netto di nostalgici e critici a prescindere, è stata probabilmente l'ultima occasione – per chi si era perso per motivi anagrafici o geografici gli show dell’età dell'oro e le successive comparsate - di assistere a una performance che abbracciasse l’intera storia dei Bauhaus. Un po' come l'ultima chiamata per l'imbarco, in aeroporto, con destinazione Gotham City. Oltretutto, low cost. E di questi tempi non è poco.



Setlist
Double Dare
In The Flat Field
A God In A Alcove
Dive
Spy In The Cab
Small Talk Stinks
St. Vitus Dance
Stygmata Martyr
Nerves
Burning From The Inside
Silent Hedges
Bela Lugosi's Dead
She's In Parties
Adrenalin
Kick In The Eye
The Passion Of Lovers
Dark Entries

Encore

The Three Shadows, Part II
Severance (Dead Can Dance cover)
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