
Vigilia. Atmosfera tesa. Sui social dominano i nostalgici della prima ora, quelli che “li ho visti mille volte, la prima nel 1974 e ora sono una parodia di se stessi” (roba del tipo “mi ha detto mio cuggino che una volta è morto” op. cit. Elio), quelli che si cimentano in calcoli algebrici per dimostrare, bilancia alla mano, di quanti chili sia in soprappeso il buon Peter, o quanti pochi capelli rimangano fedeli al suo cranio. Spuntano fotografie di biglietti ante litteram, datati 1982 o giù di lì. Ci si sfida a osannare la reunion gloriosa del 1999, e persino quella un po' così del 2006, che pure all'epoca aveva fatto storcere il naso a molti. Trattasi, insomma, di gara a chi la spara più grossa, con l'intento nemmeno tanto velato di ghettizzare e bullizzare chi invece attende il concerto se non con ansia tipicamente giovanile, almeno con curiosità, perché magari è la prima volta che si trova a tu per tu con Peter Murphy.
Tutto ciò premesso, è bene ribadire chiaro e forte un concetto elementare, che pare a molti sia sfuggito. Non si tratta dell’ennesima rinascita dei Bauhaus, ma di un tour a nome Murphy, che ha voluto celebrare a suo modo il quarantennale della band. Unica concessione, l'invito a salire a bordo rivolto al vecchio sodale David J, con cui evidentemente è rimasto in ottimi rapporti. Per cui i paragoni col glorioso passato, che già sarebbero stati quasi superflui pure se on stage si fossero materializzati Ash e Haskins (cioè i restanti 2/4 del combo), stando così le cose diventano del tutto inutili, atti solo a celebrare quel celodurismo che va tanto di moda quando si scontrano i fan di vecchia data di band celebri.
E così, tra neofiti, darkettoni attempati, orfani di Shelter e Zoe e gli immancabili rematori contro, che già pregustano il sangue sui social a spese del Nostro, il Fabrique si riscopre pieno come un uovo, quando Murphy e la band fanno il loro ingresso sul palco. Sono carichi a molla, si nota a prima vista, smaniosi di lasciarsi alle spalle tutti i problemi tecnici che il giorno prima hanno rovinato e dimezzato lo show romano. Lo Sciamano, in particolare, si avvicina con fare minaccioso ai fotografi, limitandosi però a un paio di calcetti per spostare alcuni cavi mal sistemati a bordo palco. Sospiro di sollievo, è nota infatti la sua allergia nei confronti dei paparazzi, secondo in questo solo a Nick Cave.
Il concerto inizia subito col botto. Prima parte dedicata interamente a "In The Flat Field", gloriosissima pietra miliare del gothic rock, riproposta nella sua interezza, e non succedeva dal tour del 1980... “Double Dare" in particolare, con le sue pulsazioni di basso, le dissonanze e la chitarra tagliente ad affettare l’atmosfera, è l’opener perfetta.
Lo spettacolo che va delineandosi è quasi all’antica, nessuna scenografia particolare, tecnologica sul palco inesistente, no schermi e zero elettronica. In compenso, l’eccellente uso dell’impianto luci e la macchina del fumo ricreano un’atmosfera perfetta, in pieno gothic style, e in sintonia con la musica. Geniale il faretto che illumina più volte nel buio il volto luciferino di Murphy, maschera perfetta da cabaret dell’orrore.
Il Principe Nero è in gran spolvero, elegantemente vestito con dosi abbondanti di trucco, teatrale e magnetico come nei giorni migliori. Non si risparmia e gestisce la voce nel modo migliore, senza cali, sino alla fine. Da grande attore, personaggio provocatorio e carismatico quale è sempre stato, va avanti e indietro senza interruzione, teatrale alla Bowie o più morbidamente pop alla Martin Fry, quando è il caso. Dialoga col pubblico, fa le presentazioni con un maccheronico “bellissimo” associato al nome dei musicisti, gioca con un proiettore di luce sparandolo sulle prima file, si agita indemoniato e quando non canta, si divide tra clavietta, processore di effetti e percussioni, in perenne movimento e totale padronanza del palco.
Dopo l’elettricità psicotica, quasi drammatica di “In The Flat Field", spazio nella seconda parte all’immancabile carrellata di hit, a partire dall’ultra-classico "Bela Lugosi Is Dead”, passando attraverso "Passion Of Lovers”, il periodo più marcatamente wave dell’album "Burning From The Inside" (con il brano omonimo e soprattutto l'iconica "She's In Parties), per poi chiudere il cerchio laddove tutto era iniziato, e cioè “Dark Entries", anno di grazia 1979.
Nell’encore la splendida interpretazione di “Severance" dei Dead Can Dance, con doloroso taglio delle cover eccellenti "Telegram Sam” e “Ziggy Stardust”, presenti invece in setlist nelle precedenti date europee. Ma è l’unico neo di una serata che si preannunciava incerta e che finisce in trionfo.
Alla fine, al netto di nostalgici e critici a prescindere, è stata probabilmente l'ultima occasione – per chi si era perso per motivi anagrafici o geografici gli show dell’età dell'oro e le successive comparsate - di assistere a una performance che abbracciasse l’intera storia dei Bauhaus. Un po' come l'ultima chiamata per l'imbarco, in aeroporto, con destinazione Gotham City. Oltretutto, low cost. E di questi tempi non è poco.