Per una volta la remota intimità dell'Isola Maggiore viene violata dall’esodo di un migliaio di persone, che scoprono insieme quanto è difficile rimanere indifferenti a un allineamento planetario, ossia quando tanti piccoli elementi convivono in una serata di fine giugno, dando vita a una deliziosa magia. La brezza, il cielo terso, il tramonto sul Lago Trasimeno e lo stormo di barche che ondeggiano sul pelo dell’acqua, proprio dietro al palco, abitate da spettatori non paganti che si godono prospettive inedite, appollaiati come carbonari intenti a esercitare un loro sacrosanto diritto, perché il lago è di tutti, un po' come la musica di Carmen Consoli. E poi c’è lei, appunto, l’artista; mora, labbra grandi e dita attente, abilissime nello sfiorare le corde giuste, quelle fisiche e quelle figurate. Carmen sceglie un vestito bianco per la serata al lago e si compiace del panorama, insolito e anche un po’ inaspettato. È ispirata, una volta bambina impertinente ora donna per metà consolatrice e per metà inquisitrice, che se la cerchi puoi trovarla ancora lì, all’incrocio tra il rock e il cantautorato, tra Janis Joplin e Joni Mitchell.
Spetta a "Parole di burro" incrinare il silenzio dell'Isola Maggiore, come fa il dorso di un cucchiaio su uno strato di crema appena indurita. "Confusa e felice", "Contessa miseria", “Fiori d’arancio”, “BluNotte”, “Venere”: quella di Carmen è una scaletta senza fronzoli, che si genuflette ai successi senza la minima vergogna, dapprima con la chitarra gentile di Massimo Roccaforte, poi con gli archi di Emilia Belfiore e Claudia Della Gatta.
Con “L’ultimo bacio” il sole si appoggia sul crinale dei colli perugini, riposa un paio di minuti e quando la cantantessa intona “L’eccezione” si congeda del tutto per andare a illuminare un altro spicchio di terra. I colori del Trasimeno, ora trasfigurati, ammantano l'artista di una luce diversa, stavolta più remota e “tradizionale”. Carmen canta il Mezzogiorno. “A’ finestra” e “Tano” sono entrambe in dialetto catanese e prendono il centro del palco senza un minimo di esitazione, quella che manca anche ai fan più fedeli, intenti a cantare pure parole sconosciute al loro vocabolario dialettale. La seconda – acuta e pungente - è una critica bifronte, rivolta al sistema patriarcale e allo sterile lamento delle donne che in quel sistema continuano ad apparecchiare e a lavare le mutande. Nel momento in cui tutto sembra docile, Carmen Consoli, come al solito, affonda nella carne i tentacoli sottili dell'ironia.
Quando gli applausi crescono Carmen esce e quando persistono rientra, per regalare altri quattro pezzi. Tra questi c’è “In bianco e nero”, toccante promemoria sul potere di un’istantanea, di una foto che se ben fatta sa investigare qualsiasi profondità, anche la più complessa e ostile, quella della madre in altre epoche esistenziali. Se i libri avessero una colonna sonora e una volontà, “Non ora, non qui” di Erri De Luca finirebbe per scegliersi questa. Per chiudere il sipario, invece, Consoli sceglie “Stranizza d'amuri”, in omaggio al maestro compaesano, per volare di nuovo dalle acque dolci del lago umbro alle acque salmastre della Sicilia. Forse è vero che quando si finisce si torna sempre da dove si è venuti; che quando si muore, si muore sempre in dialetto.
(grazie a Giusy Chiumenti)