Sono le note distese di “Big Sky” e il vibrante baritono di Orville Peck ad accoglierci al TPO in una serata di pioggia bolognese. Serata che, nonostante la gran qualità dei concerti cui assisteremo, verrà ricordata in città per una Piazza Maggiore piena fino all’orlo di una marea umana che finalmente ha trovato la voglia di incontrarsi in massa fuori dalle tristi e anguste bolle social per combattere con le mani una visione di mondo cupa, ferina e deprimente. Non che a Bologna sia mai stato un problema, trovarsi in piazza per manifestare, ma, visto il periodo di passioni tristi, quel che s’è visto sul Crescentone - 15.000 persone, dicono - assume le sembianze di un trionfo.
Ma torniamo a Orville Peck - che poi, a pensarci bene, con le istanze liberatorie di quella piazza ci sta a pennello. Del notevole esordio “Pony” - sorta di via queer ai più classici stilemi country - abbiamo detto qualche mese fa, e l’attesa per il suo live era tanta, fosse anche solo per verificare quanta sostanza si nascondesse dietro a un album di ottima scrittura e a un’estetica di portentoso impatto (maschera di latex e frange a coprire il volto del musicista, a corredo di un abbigliamento da cowboy). I tre quarti d’ora dell’esibizione hanno fugato ogni dubbio.
La scaletta prevede dieci dodicesimi dell’album e un paio di cover a tema, lasciando indietro giusto “Old River” e “Hope To Die”. Il quartetto che accompagna il Nostro incrocia con classe e vigore Gretsch e Fender, basso e batteria per un impasto sonoro che fa una cosa sola di torch song, alt-country, ruggine Paisley e sospensioni 4AD; su tutto svettano timbro e interpretazioni del leader, a proprio agio sia nei toni bassi e caricaturali - un Buster Scruggs di Lynch e non dei Coen, diciamo - sia nei melismi sui medio-alti che sanno tanto di Orbison e si spingono fino a un suadente falsetto.
Menzione d’onore meritano senza dubbio il singolo “Dead Of Night” - l’esatto battere di “Just Like Honey” per un lentaccio assassino - una voce che ebbra di sé si fa ruggito in “Kansas”, le riletture uptempo di Gram Parsons e George Jones & Tammy Wynette e il finale sovraeccitato di “Buffalo Run”, miglior pezzo del repertorio. Un live intenso e godibile, insomma, che lascia affamati di intriganti sviluppi futuri - io, per me, data la brusca compattezza delle esecuzioni, non posso che sperare che il songwriter del Nevada approfondisca quelle radici punk che al momento fanno capolino solo qui e là.
Ci vuole un po’ prima che i Deerhunter salgano sul palco, dopo un soundcheck tra i più singolari cui abbia assistito in vita mia - vi è mai capitato di avere davanti a voi un tecnico che per testare i microfoni racconta il testing stesso in tempo reale? A me no, mai. L’attesa è comunque più che ripagata da suoni precisi fin da subito, dalle prime battute di “Death In Midsummer” e “No One’s Sleeping”, la doppietta di brani che apre l’ultimo album dei georgiani. Sarà l’inizio di settantacinque minuti di live che daranno il tempo di riflettere sullo stato di una delle poche band per cui ancora valga la pena spendere la definizione di “indie”.
Questione di originalità dei suoni, prima di tutto: Bradford Cox è uno degli ultimi chitarristi ad aver apportato un qualche tipo di innovazione all’uso delle sei-corde, nel proprio genere. Questione di etichette discografiche: prima la Kranky e poi la 4AD, entrambi monumenti al pensiero indipendente. Questione di una non-immagine che si fa immagine: mi è veramente difficile, oggi, immaginare qualche nuova band portare a spasso per tutto il mondo e così orgogliosamente la propria sfiga.
E però siamo anche a nove anni dall’apice dei Deerhunter, che dai fasti di “Microcastle” e soprattutto “Halcyon Digest” hanno preso un po’ di strade diverse, cavandosela spesso bene e in qualche caso molto bene, ma senza più replicare quella magia: c’è tutto questo da considerare, mentre sul palco si esibisce un gruppo capace di descrivere il passare del tempo e la memoria con il semplice suono.
Cox e i suoi sodali - Lockett Pundt (chitarra, voce), Moses Archuleta (batteria), Josh McKay (basso, tastiere), Javier Morales (tastiere, sassofono) - sembrano conoscere bene i propri punti di forza, e infatti nella setlist non c’è quasi spazio per i dischi di mezzo: solo “Take Care” riuscirà a infilarsi tra sei pezzi da “Halcyon” e altrettanti dall’ultimo lavoro, con la scaletta completata da un paio di ripescaggi dal passato remoto di “Microcastle”.
Subito suoni precisi e potenti, dicevo, e l’esecuzione dei primi due brani mi riporta direttamente alla prima volta in cui vidi i Deerhunter al Primavera Sound nel 2012, un’esibizione devastante che letteralmente cambiò il mio modo di assistere ai concerti. Erano ancora furenti, lì, mentre ora tutto sembra meno teso: eppure quei cinque sono ancora capaci, nei loro momenti di massimo fulgore, di farti percepire il suono come una cosa che afferra.
Gli arrangiamenti dei nuovi pezzi, dal vivo, li rendono molto più simili a “Halcyon Digest” di quanto forse la band vorrebbe, ed è per questo che la giustapposizione di vecchi e nuovi brani fila via così liscia, con il classico “Desire Lines” - che decolla come d’abitudine in una coda che si vorrebbe infinita - e le sonorità subacquee di “Helicopter” e “Sailing”. D’altra parte, quando i Deerhunter partono per la tangente, sono ancora imprendibili - quelle dolci bolle di suono, così straordinariamente avvolgenti, io le ho sentite solo dagli Spiritualized e dagli Slowdive - e infatti l’unica battuta d’arresto della serata è la doppietta delle nuove “Futurism” e “Plains”, pop a bassa pressione che raffredda decisamente gli animi.
Il finale, però, ci mette poco a far dimenticare quei pochi minuti. Tocca a “Nocturne” chiudere il set principale, melodia amniotica che si traduce nella seconda parte in una coda ipnotica: il suono di qualcuno che svanisce, verrebbe da dire.
Dopo la pausa, il diluvio. L’immarcescibile accoppiata “Cover Me (Slowly)”/ “Agoraphobia” è accolta con un piccolo boato dal pubblico, e d’altra parte, per quanto Cox provi a distanziarsene, sarà quello del periodo 2008-2010 il suono per cui sarà ricordato - una soverchiante sinfonia di chitarre (il volume qui non riesce a stare fisicamente nel locale), una ragnatela d’arpeggi sonnambuli. “He Would Have Laughed” chiude la serata stirandosi in tutte le direzioni per almeno una decina di minuti, un’infinità di layer chitarristici per uno struggente avvitarsi attorno a un semplice riff di sei note - penso di non essere il solo della mia generazione a considerarla la miglior canzone di commiato immaginabile per l’album più bello del decennio.
Ci salutano così, i Deerhunter, e ci lasciano ritornare a casa nella pioggia della notte con l’idea di avere assistito al grande live di una band che, pur non essendo più centrale come al principio degli anni Dieci, rimane fedele alla propria essenza più profonda con grazia e stile.
Deerhunter
Death in Midsummer
No One's Sleeping
What Happens to People?
Helicopter
Revival
Desire Lines
Sailing
Take Care
Futurism
Plains
Coronado
Nocturne
Cover Me (Slowly)
Agoraphobia
He Would Have Laughed
Orville Peck
Big Sky
Winds Change
Queen of the Rodeo
Roses Are Falling
Turn to Hate
Kansas (Remembers Me Now)
Something to Brag About (George Jones & Tammy Wynette cover)
Buffalo Run
Nothing Fades Like the Light
Ooh Las Vegas (Gram Parsons cover)
Dead of Night
Take You Back