29/05/2019

Deerhunter

Santeria Social Club, Milano


I Deerhunter appartengono a quella categoria di band che, in qualche modo, non vengono quasi mai considerate veri e propri big act. Non ci siamo dimenticati delle ultime due esibizioni a Milano di Bradford Cox e compagni (anche se lui stesso, forse scherzando, non se ne ricordava) in serate che non hanno richiamato esattamente una gran mole di pubblico. Per chi come loro è abituato a calcare palcoscenici internazionali da più di una decade, sembra quasi uno scherzo del destino. E anche questa sera il Santeria Social Club non registrerà il tutto esaurito, in questa primavera che sa ancora troppo di autunno.

Il tour di promozione dell’ottavo disco “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?”, un lavoro che ne conferma l’importanza nella scena alternativa a stelle e strisce, è la giusta occasione per riassaporare il caro vecchio suono della nostalgia. Dopo l’apertura acustica della giovane cantautrice Verano, che insieme a Daniele Carretti aka Felpa (già membro degli Offlaga Disco Pax) prepara il terreno in punta di chitarra, e non prima di un soundcheck quantomeno “allegro” da parte di un roadie con affettuose manie di protagonismo, ecco palesarsi i ragazzi di Atlanta. Ci sono ovviamente i tre “storici”: Moses Archuleta alla batteria, il sempre misurato e discreto Lockett Pundt alla chitarra e ovviamente lui, il genio irregolare di Bradford Cox, sempre più a suo agio nella veste dandy-futuristica, con una camicia che Syd Barrett e David Bowie avrebbero probabilmente amato.

Rispetto alle scorse puntate in terra italica, i Deerhunter non cambiano di molto lo spartito. Le canzoni si rinforzano di una ritmica spinta (esaltata da un Archuleta in stato di grazia) e dai muri di suoni e riverberi spesso troppo a scapito delle parti vocali, in cui le atmosfere annacquate delle versioni in studio lasciano il passo all’alt-rock e allo shoegaze ipnotico e dilatato. Nulla di nuovo, e non è detto che sia un male: di nuovo ci sono le canzoni dell’ultimo disco, che com’è giusto che sia trovano ampio spazio in scaletta.
Dopo l’apertura garage-onirica di “Intro/Cryptograms”, ecco la tripletta di novità: “Death In Midsummer”, “No One’s Sleeping” e “What Happens To People?” (specialmente quest’ultima destinata a diventare un classico per gli anni a venire) suonano pulite e ordinate, precise e levigate, quasi barocche. La cartina tornasole di un compiuto percorso di normalizzazione rispetto alle sperimentazioni del passato, una tendenza che in “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?” appare sempre più evidente. Insomma, meno acquatici e psych-gaze, più “pop” nel senso nobile del termine.

Le successive “Helicopter” e “Revival” ci ricordano con affetto la grandeur di quel capolavoro che è “Halcyon Digest”, da cui la band pesca anche la sempre splendida “Desire Lines” deflagrata in una coda strumentale che dopo anni lascia ancora a bocca aperta, nonostante qualche problema di acustica che purtroppo ne impasta i suoni. E se i Deerhunter non cambiano in termini di coesione e di consapevolezza, a sorprendere e ammaliare ogni volta di più è la figura quasi totemica di un Cox che, letteralmente, cannibalizza la scena. Anche limitando al minimo i suoi monologhi inafferrabili e spesso stucchevoli, ora che non ha più paura di tenere in mano il microfono come i veri frontman, Bradford è uno spettacolo nello spettacolo. Peccato per i volumi della voce, che potevano (e forse dovevano) essere più alti.

Così, dopo un accenno all’avanguardia futurista milanese colto non proprio da tutti in apertura della dolcissima “Futurism”, arriviamo quasi senza accorgercene alle atmosfere spaziali di “Take Care” - unica superstite di “Fading Frontiers” - e agli spigoli chitarristici e smaccatamente wave di “Disappearing Ink”.
Si continua con “Coronado”, un regalo troppo bello per essere vero (anche se il sax si sente poco e nulla) e con “Nocturne”, che in veste live si compatta e, mantenendo il suo incedere trasognato, al raddoppiarsi delle chitarre nella seconda parte diventa una suggestiva escursione psichedelica. Dopo l’encore è tempo di altri pezzi da novanta: “Cover Me (Slowly)/ Agoraphobia” è il solito immenso sogno lucido, una perla retro-pop senza età che ogni volta rapisce cuore e mente, mentre in chiusura il garage-psych sbilenco e logorroico di “Monomania” sfuma in un caos infernale e in un rumore di fondo che accompagna l’ultimo applauso convinto del pubblico.

Una nota a margine: purtroppo non hanno fatto “He Would Have Laughed”, per chi scrive la canzone più grande dell’intera discografia dei Deerhunter. In quel pezzo incredibile c’è una frase che, nella sua potenza espressiva, può essere letta come il vero manifesto di tutta la vita di Bradford Cox (e forse non solo la sua): “In sweetness comes suffering”. Non questa volta, però. Nessuna sofferenza, solo tanta malinconica e dolce bellezza.