Torna il Firenze Rocks, quello che nello spazio di appena tre edizioni si sta affermando come uno dei maggiori Festival rock italiani.
Come spesso accade quando si raggiunge un simile status, far discutere diventa inevitabile, in particolare quest'anno, per motivazioni squisitamente artistiche: dopo l’annuncio a sorpresa della popstar Ed Sheeran, una vera e propria insurrezione condotta dai più oltranzisti fan del rock ha invaso per mesi i canali social dell’evento, accennando solo in parte a calmarsi quando gli altri "nomi" hanno fatto capolino nel cartellone dell'evento.
Il dilemma è sempre lo stesso: meglio fare all-in sullo stereotipo rock dei grandi “dinosauri” come Guns ‘n’ Roses e Aerosmith, oppure aprire alle varianti “esotiche” (da un certo punto di vista) rappresentate dell’heavy e dal prog metal, per non parlare delle digressioni più pop del caso? E’ l’eterno conflitto che deve affrontare chi smuove certi numeri: 200.000 persone in quattro giorni, per 30 ore di musica live, nell’enorme spazio della Visarno Arena, all'interno del Parco delle Cascine, praticamente in riva all’Arno.
Al di là degli estremismi, la terza edizione del Festival fiorentino ha proposto un programma ricco di nomi eccellenti, in grado di soddisfare gusti eterogenei, pur con qualche abbinamento un po’ troppo ardito: dallo storico ritorno live dei cervellotici Tool alla collaudata cupezza dei Cure, passando per il messia del grunge Eddie Vedder, ecco la nostra esperienza nelle tre delle quattro serate alle quali abbiamo assistito.
Serata 1: Tool + The Smashing Pumpkins + Dream Theater + Skindred + Badflower + Fiend
Una giornata calda, ma fortunatamente non ai livelli noti del capoluogo toscano, ci accoglie nella prima giornata alla Visarno Arena, quando ci infrangiamo sulla mastodontica massa umana che tenta di accedere agli spazi del Festival. “Tenta” è un verbo non scelto a caso: per raggiungere il pit posto sotto il palco impieghiamo più di un’ora, costretti a circumnavigare tutto lo spazio dell’Ippodromo del Parco delle Cascine, tra indicazioni vaghe, folle più o meno ordinate che cercano di individuare il colore giusto dell’ingresso e posti di blocco a tratti cervellotici.
Tutto questo ci impedisce purtroppo di osservare l’ingresso della band delle 17.30: i Dream Theater, ritrovatisi un po’ a sorpresa a suonare in pieno giorno, iniziano puntualissimi e ci ritroviamo ad ascoltare – per fortuna con buon riscontro acustico – i primi brani dall’esterno. I progster americani, noti per le loro prestazioni live rigorose (anche troppo, secondo alcuni), propongono una scaletta incentrata sull’ultimo lavoro in studio “Distance Over Time”, oltre a una selezione di alcuni dei brani più heavy prodotti nel passato, in linea con le sonorità dell’ultima fatica in studio.
Il risultato lascia un po’ l’amaro in bocca, sia per l’ora scarsa concessa al quintetto di Long Island, sia per la penuria nella scaletta di brani davvero entusiasmanti, tra i quali comunque spicca una notevole “The Dance Of Eternity”. Non a caso è un brano strumentale a rappresentare il vertice dell’esecuzione, vista la grande fatica che compie James La Brie, forse per via del sole crudele a cui è frontalmente esposto, forse per una semplice serata sfortunata; le sue corde vocali non devono di certo aver apprezzato questa sortita in quella che è dichiaratamente una delle città adorate dal frontman canadese. Pur salutati con affetto dal pubblico, questa non resterà tra le loro apparizioni memorabili nel nostro paese.
Le temperature iniziano a rientrare nel sopportabile quando, dopo un’ora di attesa – durante la quale evitiamo accuratamente di affrontare i famigerati token, criticatissima moneta di scambio plasticosa sempre più in uso nei maggiori Festival – un’altra band di altissimo livello sale sul palco per scaldare gli animi prima del gran finale. Billy Corgan e i suoi Smashing Pumpkins attaccano senza tanti complimenti con la splendida tripletta “Siva”, “Zero” e “Solara”, tra l’entusiasmo dei presenti.
I protagonisti del rock alternativo degli anni 90 non mancano di far rispettare la propria reputazione di band pazzesca dal vivo, sfoggiando gran forma e intensità rara: poche chiacchiere tra i vari brani – tutte riservate al chitarrista storico James Iha - e tanta aggressività sulle corde dei loro strumenti, con una setlist convincente che spazia lungo l'intera discografia della formazione di Chicago.
E' il carisma l’arma in più di Billy, integralista nella sua mise nera a dispetto della stagione, asciugandosi la pelata in diversi punti dello show senza mai mostrare segni di cedimento. Pochi i momenti più rarefatti, come “Disarm” o l’ipnotica ed efficacissima “Eye”, per il resto il loro sound è graffiante e abrasivo, smuovendo la folla al tempo dettato dal batterista Jimmy Chamberlin e dai pattern elettronici.
Il gran finale è un tripudio, tra “Ava Adore”, la dolce “1979” e una “To Sheila” che confluisce nella sorpesa “Wish You Were Here”, cantata a gran voce tra tutti i presenti. Il lungo saluto che Billy e compagni concedono dopo il finale la dice lunga sul clima che si è respirato in questa ora e un quarto di grande intensità.
Nel migliore dei modi entriamo quindi nel silenzio che scandisce l'attersa per gli eventi storici. Mentre cala la notte, il palco si tramuta velocemente in una cattedrale fatta di pannelli che sembrano monoliti kubrickiani, pronti a mostrare tutti i folli deliri che accompagneranno le contorsioni acustiche in arrivo, uniti a forme esoteriche pronte ad accecare i presenti. Dopo 13 interminabili anni la grande attesa termina con le pestate Carey che introducono “Aenima”, sparata brutalmente sul pubblico senza troppi complimenti.
Uno spettacolo dei Tool è un’esperienza fisica frastornante, che non ammette digressioni verbali tra un brano e l’altro: un lungo pestaggio senza pietà. Un viaggio che fila via in un attimo, lasciando sbalorditi dalla potenza del treno che investe tutto lungo il suo percorso, non ricordandolo tanto impetuoso in ciò che ci resta a mente dall'ormai lontano 2006.
Un’esecuzione fredda, forse più fredda del solito, ma riconoscibile tra mille, in buona parte sulle spalle del fenomenale duo ritmico composto dalla batteria di Carey e dal mostruoso basso di Justin Cancellor. Maynard, il cantante, si muove sul palco con la sua maschera assurda, meno schivo di un tempo ma, ad onor del vero, piuttosto soffocato nel pur buon mix finale dalla prorompenza dei suoi compari.
Si pesca in egual misura dagli ultimi tre popolari lavori, in una scaletta piuttosto canonica: prevedibile la “dondolante” "Shism" così come le ruvide “Forty 6 & 2” e “Parabola”, purtroppo privata della sorella “Parabol”. La scelta dei brani rischia di deludere i fan di lunga data, concedendo poche chicche, come la sorpresa di “Sweat”, ripescata dall’Ep “Opiate”. Ma poco importa, ogni introduzione viene accolta dal tripudio dai presenti, compresa la riuscita esecuzione degli inediti “Descending” e “Invincible”, ma il picco della serata viene raggiunto con uno dei migliori brani live della band: “Jambi” rispetta la già violenta versione presente in “10.000 Days”, martellando la platea con le sue distorsioni. Prima del gran finale si abbatte sui presenti un muro di suono davvero memorabile, sguinzagliando Jones e la sua chitarra dall'assolo tagliente e stridente, quasi a voler finire il pubblico.
E’ vero, gli americani non sono una band particolarmente generosa dal punto di vista della durata dei live act, vista l’esigua ora e mezza di spettacolo, ma le espressioni annichilite dei presenti, appena sopravvissuti alla “Stinkfist” finale, dicono tutto su ciò che sia necessario aspettarsi da un’esperienza live dei Tool: tanta, tantissima qualità e ferocia in una dose concentrata.
(Michele Bordi)
Serata 3: Eddie Vedder + Glen Hansard + Nothing But Thieves + The Struts + Amazons + Jameson Burt
Appare imbronciato Eddie Vedder quando alle 21,45 in punto di sabato 15 giugno sale sul palco del Firenze Rocks con l’inseparabile cartellina sotto braccio, nella quale ha ordinato le canzoni che ha deciso di proporre nella terza serata della rassegna toscana. I pettegolezzi sotto il palco si sprecano: stai a vedere che avrà litigato con Jill, la moglie, qualche fan osa sostenere, senza riuscire a nascondere una punta d’invidia, moglie guarda caso assente a bordo palco. In realtà le versioni più accreditate nei giorni successive saranno quelle di un attacco influenzale e di pressioni da parte dell’organizzazione del Festival per far chiudere anzitempo il concerto, inglobandolo in una durata che non è quella congeniale al leader dei Pearl Jam: un’ora e cinquanta minuti (due giorni prima a Bruxelles aveva suonato due ore e venti, due giorni più tardi a Barolo resterà sul palco per due ore e venticinque minuti…), e a quanto pare sarebbero dovuti essere addirittura meno. Un'ora e mezza, com i Tool due sere prima: evidentemente il festival ha concesso questo tipo di "slot" agli headliner.
Di conseguenza chi ha ancora negli occhi il concerto di due anni fa, sempre alla Visarno Arena, non potrà evitare di andare via deluso, sia per la minore intensità (ricordate quando salì sulla transenna nel bel mezzo di “Song Of Good Hope”, niente di questo accadrà stasera, anzi Vedder resterà quasi sempre seduto), sia come scelta dei brani (tutto davvero troppo prevedibile), sia come interazione con il pubblico (quasi zero), sia come bicchieri di vino consumati (zero assoluto, brutto segno…).
Eddie continua a fare le stesse cose del tour di due anni fa, proponendo le proprie canzoni (in particolare quelle di “Into The Wild”), quelle del repertorio dei Pearl Jam (“Immortality” sarà la prima a togliere il fiato) e diverse cover, accompagnato per lunghi tratti da un quartetto d’archi (il Red Limo Quartet) e nella parte finale dall’amico Glen Hansard, che ha anche suonato prima di lui proponendo un mix fra canzoni vecchie e un paio di estratti dal nuovo album “This Wild Willing”.
Ma essere di nuovo a Firenze al cospetto di Vedder rappresenta un atto di riconoscenza per tutto quello che quest’uomo ha saputo regalare ai propri fan, specie negli anni 90. Non c’è più la rabbia degli esordi, e ci sta, c’è meno trasporto, tutto è assolutamente prevedibile, fra una chitarra elettrica, un’acustica e un ukulele. Ma ci sono le canzoni, quelle sì, e soprattutto quelle della band-madre catalizzano l’attenzione, come una “Black” proposta con gli archi, da restarci stecchiti, una “Indifference” che colpisce dritta al cuore, e qualche frangente di straordinaria bravura, come la “Should I Stay Or Should I Go” dei Clash eseguita in modalità punk-rock con il solo accompagnamento dell’ukulele. Merita menzione anche “Alive”, suonata dal quartetto d’archi senza Vedder, con il pubblico a farne le veci e creare un’atmosfera indimenticabile.
Eddie dedica un brano a Tom Petty, ricorda il regista Franco Zeffirelli, appena scomparso, emoziona con uno stralcio di “Brain Damage” dei Pink Floyd, lascia trasparire la possibilità di un prossimo ritorno in Italia, nel 2020, questa volta con i Pearl Jam per la promozione di un nuovo album. E la folla esulta. Alle 23,40 i giochi però sono già terminati, un po’ prestino per un Festival che si pone come obiettivo quello di diventare un’eccellenza europea in territorio italiano.
La giornata era iniziata alle 15, quando sotto un caldo infernale (per fortuna sono stati installati due macchinari spara acqua ai lati del pit) si è esibito davanti a pochi coraggiosi Jameson Burt, seguito dall’innocuo indie degli Amazons, dall’efficace glam Queen oriented degli Struts e dalle hit dei Nothing But Thieves, con il cantante visibilmente afflitto da problemi alla voce.
Alle 19,30, per ingannare l’attesa del cambio palco, Ringo di Virgin Radio lancia magliette e gadget al pubblico, sfruttando il siparietto con l’ospitata di uno spaesatissimo Marky Ramone e in sottofondo un dj set cristallizzato sul classic rock d’antan. Poi Glen Hansard alle 20,05 e a seguire l’eroe della serata, Eddie Vedder, l’ex-surfista del grunge. E ancora una volta si è respirato l’amore immenso che trasudava dalle decine di migliaia di cuori assiepati in questa gigantesca arena. Di nuovo tutti assieme, uniti, sudati e adoranti.
(Claudio Lancia)
SERATA 4: The Cure + Sum41 + Editors + Siberia + Balthazar
Ultima giornata all'insegna di un caldo leggermente più secco e ventilato rispetto a quelle di venerdì e sabato. Una buona notizia, ma non sufficiente per far decidere a chi vi scrive di assistere all'intero programma. Ne fanno le spese i nostrani Siberia e la formazione belga Balthazar (in realtà udita in lontananza durante le lungaggini della gestione ingressi del Festival, autrice di un indie-pop non originalissimo, ma che si attaglia piuttosto bene a un'esibizione pomeridiana estiva), qui per presentare il nuovo album “Fever”.
Il primo vero act è quindi quello degli Editors, freschi di pubblicazione del nuovo singolo "Frankenstein", che impegnano il palco alle 17.30. Sui giganteschi ledwall della Visarno Area il volto di Tom Smith sembra provato dal clima e dall’esibizione controsole, ma nell'insieme la performance della band è compatta e impeccabile.
Vincolati (purtroppo) a soli 40 minuti di esibizione, gli Editors infilano quasi subito i classicissimi "Papillon", "Munich", "An End Has A Start" e "The Racing Rats", per poi tenere alta l'attenzione della folla con episodi estratti dall'ultimo "Violence" e chiudere, appunto, con "Frankenstein", congedandosi al grido di "Enjoy The Cure!".
In realtà dobbiamo prima sorbirci un dj set infarcito degli stereotipi più triti del rock degli ultimi quarant'anni, che dovrebbe scaldare gli animi per il set successivo, quello dei Sum 41. Al di là del sottolineare l'azzardo degli organizzatori nel sistemare epigoni di Green Day e Blink 182 in un contesto di tutt'altro target, va detto che il quintetto americano cerca in tutti i modi di ingraziarsi il pubblico, piazzando qua e là discutibili versioni lampo (pensate come intro per brani del repertorio) di "Another Brick In The Wall" e "Seven Nation Army", che suscitano però scarso entusiasmo. Il pop-punk dei Sum 41, suonato con impeto ragazzino, sembra in generale poco consono alla giornata e a un'audience che, in perfetta antitesi con la temperatura, si mantiene freddina.
Non resta quindi altro che prepararsi al vero motivo di presenza per la maggior parte dei cinquantamila accorsi oggi. Sempre per chi vi scrive, sono trenta gli anni che separano il primo concerto dei Cure ("The Prayer Tour", quello di "Disintegration") dall'esibizione al Firenze Rocks 2019. Trent'anni in cui l'amore per una band iconica (e formante, in termini adolescenziali) ha ricalcato gli alti e bassi di una carriera impostata sulla personalità del proprio leader e di un repertorio praticamente immune all'invecchiamento. Sarà difficile non cadere nel religioso e nel nostalgico.
Robert Smith ha diverse cose da festeggiare, nel 2019. Ci sono i suoi 60 anni, così come i 30 di "Disintegration" e l'ingresso della band nella Rock'n'roll Hall of Fame. In tutta verità, ci sarebbe anche l'uscita di un nuovo disco, previsto per l'autunno, ma è evidentemente troppo presto per farne menzione; stasera si tratta di celebrare.
E allora si dia inizio allo spettacolo, sul ritmo dell'iniziale e tagliente "Shake Dog Shake" (ecco che partono i ricordi: "The Top" è il primo album dei Cure che ho ascoltato, nel 1984). Smith e soci sono parecchio distanti dalla mia postazione, ma è facile godere del loro sguardo sornione e compiaciuto sullo schermo accanto. Il suono è notevole fin dalle battute iniziali e le linee di ritardo fanno il loro mestiere egregiamente. Completa l'opera, e non ci potrebbe essere compagna migliore, la bianchissima luna piena che fa capolino esattamente dietro il palco, sulla destra.
Un flauto dissonante prepara l'attacco di uno dei migliori brani del periodo anni novanta, "Burn", che si allunga nei suoi quasi sette minuti di tribalismo elettrico grazie al basso di un Simon Gallup in grande spolvero (come sempre l'unico componente a vagare senza sosta per tutto lo show), e sfocia naturalmente nel mood del quasi coevo "From The Edge Of The Deep Green Sea" (da "Wish").
L'occhio torna a cadere su Robert Smith, che in tutti questi anni è riuscito a restare un personaggio credibile, simpaticamente fuori dal gregge, in grado di diventare virale con dichiarazioni burberamente ironiche, al contempo ombroso come un gatto e ciarliero come lo zio matto di famiglia. Continua a ostentare il look del periodo d’oro, risultando ancora più decadente per via del sovrappeso e degli anni sulle spalle, ma in quel suo essere insieme misterioso, amichevole, cupo e sorridente folletto, c'è una sensazione di intimità che si riserva alle persone speciali.
Difficile da prevedere, all'inizio, quando il suo volto era un riferimento per i cosiddetti dark (di cui facevo parte). All'epoca, Robert e i Cure (così come Siouxsie) erano appannaggio di pochi, musica lontana dal mainstream, anfitrioni per gente lunare e malinconica. E invece eccolo lì, oggi, ad arringare la folla dopo "A Night Like This", nel suo consueto inglese gutturale e incomprensibile ai più, sincero nel trasmettere l'entusiasmo di stare su un palco. Smith è l'unico goth-hero (che odia il termine goth) a cui è stata perdonata la deriva commerciale di metà anni Ottanta, in virtù della sua capacità di far scendere a patti i fan storici con la loro naturale, pessimistica, disillusione (identificata nella sacra triade “Seventeen Seconds”, “Faith” e “Pornography”), integrando aspetti più giocosi e bislacchi, poco per volta sempre più tollerati (come “The Caterpillar” o “The Walk”). Un dualismo ben espresso dal live di questa sera, la cui setlist prosegue, intensa e curata, attingendo sia dai momenti più orecchiabili ("Just One Kiss", "In Between Days", "Never Enough") sia da quelli del periodo marcatamente post-punk ("Play For Today", "Primary", "One Hundred Years"), anche se è il materiale di "Disintegration" e "Wish" a farla da padrone (cinque estratti a testa), ed è "A Forest" l'episodio che riesce a far vibrare un mare di mani a tempo con la celebre linea di basso di Gallup.
I Cure superano il traguardo dei quarant'anni di attività mostrando una invidiabile intesa sul palco; quella tra Smith e Gallup è cementata da decadi di fratellanza, ma anche Roger O'Donnel e Jason Cooper sono ormai parte consolidata di una famiglia che da lungo tempo cerca di stabilizzarsi. Diverso è il discorso per Reeves Gabrels, storico chitarrista dei Tin Machine e di David Bowie, che sembra il più fuori contesto sul palco, il più legato al clichè del turnista di lusso chiamato ad eseguire (con perizia) il lavoro sporco.
Smith intrattiene il pubblico con un paio di siparietti legati alla difficoltà nell'acquisto di un capotasto mobile nel pomeriggio a Firenze (nessuno sapeva come indicare l'oggetto in italiano) e alla rottura di una corda della chitarra acustica, ma stare davanti a cinquantamila persone non di madrelingua inglese sembra essere un concetto molto distante dalla sua cup-of-tea. Prendiamo atto che la prima parte dello spettacolo è conclusa (ben poche chance sono concesse ai brani degli ultimi quattro album della discografia, come se fossero effettivamente figli di un dio minore) e ci prepariamo per un encore che, come di consueto, si preannuncia zeppo di inevitabili tormentoni.
Pochi minuti di attesa e risuonano nell'arena le note di "Lullaby", "Close To Me", "Why Can't I Be You?" e la tanto attesa "Friday I'm In Love", sulle note della quale intere aree della platea sembrano risvegliarsi all'improvviso, mentre Robert conferma una performance vocale in grado di reggere due ore e mezza senza cedimenti di sorta.
Gran finale su "Boys Don't Cry", ideale chiusura del cerchio anche in termini di carriera, e spazio ai saluti finali, con Smith che raggiunge le due estremità del palco per spendersi in ringraziamenti.
Le cronache off-stage ci diranno della presenza dell'altro Smith del giorno (Tom, il cantante degli Editors), avvistato in tribuna vip a ballare e condividere birre con membri dello staff in diversi momenti del repertorio Cure, simbolica rappresentazione di due generazioni a confronto che riescono a vibrare all'unisono come i metronomi dopo un tempo sufficientemente lungo. Mentre la luna continua a guardarci, la cura sembra iniziare a fare effetto, e anche uno spazio immenso come la Visarno Arena appare più raccolto, come in un momento di preghiera. Amen.
(Paolo Ciro)
Contributi fotografici di Elena di Vincenzo, Francesco Prandoni e Guglielmo Meucci di Firenze Rocks
Giovedì 13 giugno
Tool
Third Eye Intro (tape)
Ænema
The Pot
Parabola
Descending
Schism
Invincible
Sweat
Jambi
Forty Six & 2
Vicarious
(-) Ions (tape)
Stinkfist
Smashing Pumpkins
Siva
Zero
Solara
Knights of Malta
Eye
Bullet With Butterfly Wings
Tiberius
G.L.O.W.
Disarm
Superchrist
The Everlasting Gaze
Ava Adore
1979
Cherub Rock
To Sheila
Wish You Were Here
The Aeroplane Flies High (Turns Left, Looks Right)
Dream Theater
Atlas (tape)
Untethered Angel
As I Am
Fall Into the Light
Barstool Warrior
In the Presence of Enemies, Part I
The Dance of Eternity
Lie
Pale Blue Dot
Pull Me Under
Sabato 15 giugno
Eddie Vedder
Toulumne (tape)
Cross The River
Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town
I Am Mine
Brain Damage (Pink Floyd cover)
Immortality
Wishlist
Indifference
Wildflower (Tom Petty cover)
Far Behind
Just Breathe
Can’t Keep
Sleeping By Myself
Guaranteed
Black
Parting Ways
Should I Stay Or Should I Go (Clash cover)
Porch
Alive
Unthought Known
Better Man
Song Of Good Hope (Glen Hansard)
Society
Hard Sun
Rockin’ In The Free World (Neil Young cover)
Glen Hansard
Grace Beneath The Pine
High Hope
When Your Mind’s Made Up
Bird Of Sorrow
I’ll Be You, Be Me
Way Back In The Way Back When
Shelter Me
Her Mercy
This Gift
Nothing But Thieves
Forever And Ever More
Live Like Animals
Wake Up Call
I’m Not Made By Design
Soda
Trip Switch
I Was Just A Kid
Ban All The Music
Particles
Sorry Amsterdam
Struts
Primadonna Like Me
Body Talks
Kiss This
In Love With A Camera
I Do It So Well
Put Your Money On Me
Where Did She Go
Could Have Been Me
Domenica 16 giugno
The Cure
Shake Dog Shake
Burn
From the Edge of the Deep Green Sea
A Night Like This
Pictures of You
High
Just One Kiss
Lovesong
Just Like Heaven
Last Dance
Fascination Street
Never Enough
Wendy Time
Push
In Between Days
Play for Today
A Forest
Primary
Want
39
One Hundred Years
Lullaby
The Caterpillar
The Walk
Doing the Unstuck
Friday I'm in Love
Close to Me
Why Can't I Be You?
Boys Don't Cry