18/11/2019

Godspeed You! Black Emperor

Magazzini Generali, Milano


Annunciata già a fine maggio scorso, la data milanese dei Godspeed You! Black Emperor ai Magazzini Generali è confluita nel programma dell’annuale “music meeting” Linecheck: un concerto, dunque, che funge più da prologo che da inaugurazione propriamente detta, essendo il resto della kermesse storicamente incentrato su sonorità elettroniche e crossover che ben poco hanno a che spartire con il collettivo canadese. In ogni caso, una scelta a colpo sicuro, dato l’inossidabile culto e la notoria grandiosità delle esibizioni di Efrim Menuck e soci, di ritorno a un solo anno di distanza dal tour a supporto di “Luciferian Towers”.

Difficilmente si potrebbe accampare la scusa del “Li ho già visti”, poiché ogni occasione fa storia a sé e la formazione non sa fare a meno di riversare tutta la propria anima nelle intensissime setlist di volta in volta presentate. E in apertura di serata troviamo anche un’agguerrita sassofonista in solo, la danese Mette Rasmussen: qualcuno ricorderà il primo tour della reunion nel 2011, quando un imberbe (letteralmente!) e ancora ignoto Colin Stetson ammutolì il pubblico con i suoi micidiali tour de force post-minimalisti al baritono; il sax alto dell’improvvisatrice nordica è un grido brutale e liberatorio, un auto-esorcismo i cui svolazzi free inizialmente poggiano su note dominanti, poi man mano se ne allontanano in un continuo rialzo della posta in termini di frequenze e di potenza del soffio.
Ai fraseggi caotici ereditati da Anthony Braxton ed Evan Parker si accompagnano così guaiti sgraziati alla Zorn, del quale Rasmussen riprende anche la “sordina” del ginocchio sollevato verso la campana per attutire e spostare il tono in uscita. Con taluni ipnotizzati, talaltri apertamente infastiditi da una tale invasione sonora, la sala si divide e il chiacchiericcio riempie in modo fastidioso i brevi momenti in cui la performer riprende fiato. L’applauso finale, comunque, ne decreta la sostanziale vittoria – viva la democrazia, ma soprattutto viva l’avant-jazz che resiste senza scrupoli né compromessi.

L’immancabile “Hope Drone”, diffuso dagli amplificatori e proiettato su schermo, annuncia l’ingresso dei GY!BE, i cui otto componenti si dividono fra tre chitarre, due bassi, due batterie e un violino. Pur da sempre sensibile al potere trascendentale delle distorsioni elettriche, in questo recente assetto la band ha portato il proprio sound a conseguenze ancor più estreme, al punto da sfiorare le assordanti saturazioni degli Swans e, guardando ancor più indietro, le baraonde totaliste del compianto Glenn Branca. Ci aspettano dunque, in ordine arbitrario, le prime tre delle quattro sezioni tratte dallo scorso album, tripudio di climax complementari che lo rendevano forse l’esito più classicamente “sinfonico” della loro lunga e gloriosa epopea. I refrain ossessivi, quasi alla Steve Reich, di “Bosses Hang” e la marcia al contempo trionfale e disperata di “Undoing A Luciferian Towers” – cui si unisce il sax di Rasmussen – ravvivano l’epos utopico dei leggendari Godspeed, che dopo tanti anni ancora invocano a piene casse (e senza una parola) il rovesciamento dei poteri economici e l’abbattimento delle frontiere.

Ma a questo tour invernale, in apparenza estemporaneo, si accompagna anche la presentazione di due inediti, molto simili in spirito e per sviluppo drammatico ai brani sopracitati. “Glacier” e “Cliff” sono, se possibile, ancor più ridotte all’osso in termini di scrittura musicale per divenire i puri veicoli di build-up d’energia primordiale – a giudicare da questi due titoli, qualcosa mi dice che il prossimo Lp sarà tutto ispirato alla monumentalità e alla soverchiante potenza del mondo naturale.
Un’ora e mezza se ne va così, con materiale ancora fresco e di incredibile impatto: un’altra band qualsiasi, per fare contenti i nostalgici, avrebbe dovuto tenere da parte una corposa serie di bis, ma ai GY!BE basta soltanto un brano di repertorio per colmare un vuoto soltanto relativo. Il sublimante finale è dunque affidato a “The Sad Mafioso”, sequenza centrale di “East Hastings” (dall’esordio “F#A# ∞”), che dal lamento iniziale della prima chitarra si amplia gradualmente in un "tutti" sincopato, intriso di sommessa malinconia, il distillato più puro del post-rock sviluppatosi alle soglie del terzo millennio. I musicisti scompaiono uno a uno dietro il palco, i loop e i feedback rimangono per lunghi minuti a ronzarci nelle orecchie, talmente solidi e stratificati da poter proseguire un’altra ora e non perdere nulla in pregnanza.

Se giungo solo in coda a menzionare la scellerata decisione di portare una band simile tra le mura striminzite dei Magazzini Generali, crogiolo di sudore e cattiva acustica, è proprio perché dopo più di vent’anni i Godspeed riescono ancora a sovrastare qualunque condizione con la loro poetica assoluta, richiamo alla resistenza dell’anima in un tempo storico avverso e senza apparente possibilità di riscatto.