06/06/2019

Peter Perrett

Badehaus, Berlino


di Michele Corrado
Peter Perrett

Non avesse preferito droghe e altri eccessi alla carriera per una buona fetta di esistenza, con la voce polverosa e iconica che si ritrova, Peter Perrett calcherebbe palcoscenici di venue ben più capienti della Badehaus – duecentocinquanta posti in piedi nel Raw di Berlino. E’ anche vero però che, non avesse fatto quel che ha fatto, o meglio si è fatto, non avesse letteralmente toccato il fondo, Perrett non sarebbe potuto risorgere, dunque scrivere quella meraviglia di disco uscita due anni or sono.

Hanno aperto i Kecks, band di stanza ad Amburgo, ma con membri provenienti un po’ da ovunque – Germania, Austria, Australia, Francia e Inghilterra. La maglietta verde fluo con l’inconfondibile logo degli Arctic Monkeys indossata dal gigantesco e platinato bassista è una dichiarazione d’intenti. La band di Alex Turner è senz’altro la stella polare dell’indie-rock dei Kecks, che però sembrano adorare anche certi spigoli degli Strokes e gli eccessi da palcoscenico dell’hard-rock 70’s.
Come se non bastasse, certi gorgheggi istrionici del cantante convocano Matt Bellamy a completare l’ampia rosa di influenze del gruppo. Un bel pasticcio, insomma, ma interpretato con spregiudicatezza ed energia. Materiale registrato non se ne trova ancora molto, ma il live offerto è di buone speranze. Il brano da appuntarsi è la flangerosa “Paris”, che ha concluso la breve setlist in un tripudio di vocine effettate e convulsioni chitarristiche.

Dopo tre brani chitarra e voce proposti da Jamie Perrett (figlio nonché chitarra solista della band di Peter) in compagnia della violinista e corista della band, tra i quali ha spiccato una cover di “Don’t Let Me Be Misunderstood” sacrale, è stata finalmente la volta nel Nostro; sul palco con lui, oltre a Jamie e la violinista, un batterista, una tastierista e l’altro figlio, il mingherlino Peter Jr, al basso.
Spessi Rayban neri indossati come una maschera, una maglietta nera e sottile che lascia trasparire un corpo che ne ha provate di mille colori, la Telecaster rossa impugnata con un prolungamento del corpo adunco, la sagoma silenziosa e dimessa di Perrett calamita l’attenzione di ogni astante prima che questi sfiori le corde o apra bocca. Poi l’inizio incendiario con “Baby Don’t Talk” degli One, gli applausi già scroscianti, ripagati solo con un sorrisetto complice, da marpione che sa di avere in pugno i suoi adepti.
Si continua con “How The West Was Won” e dunque con quasi tutte le altre canzoni che la seguono nel  fortunato disco del 2017, perché tra Only Ones e One, Peter ha un gran passato, che gli ha fatto guadagnare il mito, ma se scorrazza di nuovo tra i palchi del Vecchio Continente è per questa nuova fiamma di ispirazione. Ci sono i brani più politici e crudi, intonati con tono disilluso e cinismo da vecchiardo, ma anche le melodie celestiali degli splendidi pezzi dedicati all’adorata moglie. Le varie “Troika” e “An Epic Story”, lievi e candide, cantate a memoria da tutti.

Spacca il set in due un altro ripescaggio, questa volta dal catalogo degli Only Ones, “The Whole Of The Law”, il cui arpeggio gioviale e il cantato strascicato conducono a un finale di concerto interamente dedicato a “Humanworld” – secondo disco a nome Peter Perrett in uscita il giorno dopo. Poi tocca a “Heavenly Days”, brano d’amore e vecchi tempi zuccherino e paradisiaco. Si tratta di canzoni molto tese, con finali quasi lisergici, con le chitarre in gran spolvero. Non mancano anche momenti più contemplativi, affidati a un violino drammatico e interventi di tastiere molto 70’s. I testi sono decisamente incazzati e, dato il titolo dell’opera, inevitabilmente politici. Sempre molto schietti e semplici, ma mai stereotipati o impersonali, cosa che sarebbe impossibile con l’ironia brit del vecchio Perrett.
Farà parte di “Humanworld” ed è stato proposto live anche un brano scritto e cantato da Jamie, “Master Of Destruction”, ricompensato così del supporto senza il quale il ritorno in pista del papà non sarebbe stato possibile. Nulla più che power pop nerboruto e tirato, il brano dal vivo ha fatto però la sua porca figura; grazie anche al controcanto di Peter, che ha prodotto un momentaneo capovolgimento dei ruoli.

Encore breve e scatenato e tutto dedicato ai tempi andati, il cui epicentro è stato inevitabilmente “Another Girl, Another Planet”, indimenticabile gemma da “The Only Ones” del 1978. Un ottimo indicatore della qualità non solo della serata, ma anche della recente produzione del rocker londinese, sono le reazioni ugualmente entusiaste che il suo pubblico ha elargito ai vecchi e ai nuovi classici.

Setlist
  1. Baby Don't Talk
  2. How the West Was Won
  3. An Epic Story
  4. Hard to Say No
  5. Troika
  6. Sweet Endeavour
  7. Living In My Head
  8. From Here To Eternity
  9. The Whole of the Law
  10. Once Is Enough
  11. Heavenly Day
  12. Love Comes on Silent Feet
  13. Love's Inferno
  14. Master of Destruction
  15. 48 Crash
  16. War Plan Red
  17. I Want Your Dreams
  18. Another Girl, Another Planet
  19. The Beast
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