11/12/2019

Roberto Vecchioni

Teatro Brancaccio, Roma


Roberto Vecchioni guarda l'Infinito e Roma resta incantata. Tre ore abbondanti di musica, battute e riflessioni come nella miglior tradizione del teatro-canzone. Una lezione a tanti più giovani e svogliati protagonisti attuali impartita con la classe di sempre dal settantaseienne prof milanese, giacca nera e camicia grigia, solito savoir-faire ed energia esuberante.

Alle 21.20 si apre il sipario. Un enorme orologio da stazione sullo sfondo e una voce fuori campo. Poi arriva lui, a braccia aperte, come un attore consumato, per avvolgere idealmente il pubblico del Teatro Brancaccio. Deve però fare i conti con la maleducazione di una sguaiatissima spettatrice che si rivolge a lui inveendo per il freddo in sala. "Sì, fa un po' freddo in effetti, forse ho sbagliato a togliermi la giacca", replica lui ironico, invitando ad accendere il riscaldamento. Ma non basta, perché l'infreddolita spettatrice prosegue nella sua filippica, scatenando le proteste del resto della platea. "Sì, però non siamo a una riunione di condominio", scherza ancora Vecchioni, che fa anche il bel gesto: prende la sua giacca e la porge alla signora, la quale però rifiuta stizzita beccandosi altri rimbrotti di disapprovazione generale. E allora il professore inizia a spazientirsi. "Non so se mi va di andare avanti così, però. Anche perché questo non è un concerto, è una valanga di emozioni". Seguono applausi e, finalmente, la musica.
La prima parte del concerto è tutta incentrata su “L’Infinito”, l'ultimo album di Vecchioni, esplicitamente ispirato alla poetica di Leopardi ma non solo. “Dobbiamo restare attaccati a questa vita, assaporarla fino in fondo e decidere noi il nostro destino”, spiega il cantautore milanese presentando il disco. E nessuna canzone meglio di “Ti insegnerò a volare” - il brano dedicato ad Alex Zanardi, per il quale è riuscito a scomodare perfino Francesco Guccini in un duetto – può rendere l'idea.

Si susseguono le nuove canzoni, che hanno sempre il fascino “classico” di quelle più antiche, perché Vecchioni sa essere fuori dal tempo e dalle mode, universale nel suo imprinting cantautorale, così rigoroso e appassionato al contempo. Il professore sale in cattedra, accompagnando le canzoni con riflessioni, aneddoti scherzosi e gag, che scatenano l'ilarità del pubblico. Uno spettacolo intimo e introspettivo, che indaga tra le contraddizioni e i tormenti dell’animo umano. Accompagnato dalla sua band (Lucio Fabbri al pianoforte e violino, Massimo Germini alla chitarra acustica , Antonio Petruzzelli al basso e Roberto Gualdi alla batteria), Vecchioni guida il pubblico in modo sornione, sapiente, stuzzicando l'intelletto e scaldando il cuore, come quando ricorda Liliana Segre e il corteo contro l'odio di Milano: "Ero vicino a lei, quella donna trasmette uno spirito vitale immenso, ti fa sentire tutto quello che ha vissuto, si può percepire davvero e – arrivo a dire – mi fa pensare all'esistenza di Dio".

La commozione è inevitabile al momento del ricordo di due vittime dell’odio e della violenza, Giulio Regeni (nel brano “Giulio”) e Ayse Deniz Karacagil (nel brano “Cappuccio Rosso”), giovane patriota curda uccisa dall’Isis, rievocati entrambi adottando la stessa tecnica del verosimile e dell’immedesimazione. C'è spazio anche per la nostalgia di “Formidabili quegli anni” (che richiama il celebre libro di Mario Capanna), ma anche per il futuro di "Vai ragazzo", che invoca la piena cittadinanza per le presunte “lingue morte del Liceo Classico (latino e greco). “Sono lingue più che mai vive, le ritroviamo in quasi tutte le nostre parole, sono la fonte della nostra cultura, della nostra storia”, si appassiona il docente di Lettere, pronto anche a difendere a spada tratta la "Parola", in un'accorata ode al linguaggio (a rischio estinzione), e ad attingere ai riferimenti letterari di Calvino per l'elegia di "Una notte, un viaggiatore”.
Non mancano però gli spazi comici. "Ora però fa un caldo della Madonna!", esclama Vecchioni, che non si risparmia in aneddoti e gag col pubblico. Racconta di sbronze e distributori di benzina notturni, di Beethoven, Schubert e Guccini. E la politica? Ce n'è poca, sottotraccia. O forse tanta, a pensarci bene. Con quel breve accenno a “Bella Ciao” a valere più di tante parole.

Dopo un breve intervallo, inizia la seconda parte, dedicata ai classici. E riemergono inni da cuore in gola, come la pacifista “Stranamore”, l'idealismo antico ma ancora vibrante di “Velasquez” e quello rivolto alle nuove generazioni di “Sogna ragazzo sogna” e della trionfatrice di Sanremo, “Chiamami ancora amore”. Ci si crogiola nella malinconia di “Ninni”, “Viola d'inverno” e della sempiterna “Luci a San Siro”. Si ritrova anche il piglio scanzonato di “El bandolero stanco”, prima di lanciarsi al galoppo finale della sempre trascinante “Samarcanda”.

Sono passate tre ore, e Vecchioni è ancora lì, a toccarsi il cuore e abbracciare idealmente il pubblico, che ora finalmente gli tributa la doverosa standing ovation. E possiamo finalmente dimenticare la spettatrice cafona infreddolita, il chiacchiericcio, gli spostamenti e le uscite precoci dalla sala. Guardiamo, anche a noi, all'Infinito. E grazie ancora, professore.

(Pubblicato originariamente su Leggo.it)